Talk to Me: quando le cose ci parlano

Diretto o subliminale, il processo di comunicazione tra persone e oggetti è al centro della nuova mostra di Paola Antonelli al MoMA.

Parlami. In inglese: Talk To Me. Così, con fare vagamente almodovariano, Paola Antonelli, curatore responsabile del dipartimento di Architettura e Design del MoMA, aveva sillabato in un'oscura trattoria bavarese nel gennaio 2009. Spiegava: "Non so ancora che cosa selezionerò per la mia prossima mostra, ma per adesso so quale sarà il titolo."

Puntualmente, due anni e mezzo dopo, Talk To Me apre nel celebre museo newyorkese. In mostra oltre 200 pezzi – giocattoli, installazioni, video, siti interattivi e oggetti di tutti i tipi – che affollano la galleria del terzo piano, con numerosi rimandi nei corridoi di accesso nonché all'interno e all'esterno dell'edificio.

L'idea è semplice: negli ultimi anni, a seguito della rivoluzione digitale, un gran numero di dispositivi elettronici sono entrati a far parte della nostra vita quotidiana. Grazie a essi i nostri oggetti, le nostre case e persino le nostre città hanno acquisito la capacità di 'parlare', ovvero di interagire con noi. Tutto ciò sta cambiando radicalmente non solo la nostra vita ma anche la professione del designer, che ormai deve essere in grado di spaziare tra discipline molto diverse tra loro (dalla programmazione alla sociologia) e ripensare criticamente la propria missione.
Masamichi Udagawa e Sigi Moeslinger di Antenna Design, e David Reinfurt, Kathleen Holman, e MTA New York City Transit, prodotto per MTA New York City da Cubic Transportation Systems: MetroCard Vending Machine. 1999. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Masamichi Udagawa e Sigi Moeslinger di Antenna Design, e David Reinfurt, Kathleen Holman, e MTA New York City Transit, prodotto per MTA New York City da Cubic Transportation Systems: MetroCard Vending Machine. 1999. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Nel testo che accompagna il catalogo questi cambiamenti vengono letti sull'onda lunga dell'opposizione al freddo razionalismo novecentesco: "I cliché del ventesimo secolo, quali 'la forma segue la funzione' , motto modernista mutuato con qualche variazione da Louis H. Sullivan, e 'design significa risolvere problemi'… Sono stati i responsabili di progetti architettonici e di design senz'anima, lobotomizzati." Al contrario, le esperienze di Talk To Me vengono ricondotte ai fecondi anni Sessanta e alle esperienze dei radicali, con le loro prime idee di architetture cibernetiche, mobili e interattive. A noi sembra che si potrebbe risalire più indietro, fin quasi alle origini stesse dell'arte e a quell'anelito mai sopito verso la creazione di mondi artificiali capaci di vivere di vita propria. Vengono in mente la ben nota apostrofe michelangiolesca del "perché non parli" o gli automates di Maria Antonietta, scene di vita quotidiana che acquisivano una vaga parvenza di animazione grazie a sofisticatissimi sistemi meccanici.
Kacie Kinzer, Interactive Telecommunications Program, Tisch School of the Arts, New York University: Tweenbot, 2009. Cartone, carta, inchiostro, batterie, motore e ruote. vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Kacie Kinzer, Interactive Telecommunications Program, Tisch School of the Arts, New York University: Tweenbot, 2009. Cartone, carta, inchiostro, batterie, motore e ruote. vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Oggi, col digitale è tutto più semplice. Gli automates ci perseguitano quando dobbiamo prelevare dei denaro (in mostra al MoMA il nuovo, elegante Bancomat di BBVA, disegnato da IDEO), comprare una smart card per gli spostamenti metropolitani o monitorare in tempo reale i consumi di energia delle nostre case. Ci aiutano quando non riusciamo più a svolgere alcuni compiti, come nel progetto Eye-Writer, interfaccia basata sul riconoscimento dei movimenti della pupilla di Tony Quan, graffiti artist americano ormai paralizzato che grazie a questo sistema può continuare a lavorare.
Kate Hartman, Interactive Telecommunications Program, Tisch School of the Arts, New York University: Muttering Hat, 2006. poliestere, schiuma, casse audio e registratore digitale. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Kate Hartman, Interactive Telecommunications Program, Tisch School of the Arts, New York University: Muttering Hat, 2006. poliestere, schiuma, casse audio e registratore digitale. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
In alcuni progetti esposti manca la parte di interazione con il visitatore – come nelle suggestive visualizzazioni i tempo reale di grandi quantità di dati urbani, siano essi il movimento dei taxi di Lisbona piuttosto che le chiamate d'emergenza al 911 newyorkese. In altri casi si ha l'impressione di trovarsi di fronte a progetti dell'ultimo anno di una scuola d'arte – come nella Menstruation Machine, complesso meccanismo per simulare l'effetto delle mestruazioni anche su persone di sesso maschile. Si potrebbe sollevare anche qualche obiezione per quanto riguarda grafica e allestimento, che sembrano basati su una visione del digitale un po' troppo romantica e all'antica, fatta di pixel e colori elementari. Nel complesso però il tema della mostra emerge a chiare lettere e sembra essere di quelli destinati a lasciare il segno.
Vista della mostra <i>Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects</i> al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Vista della mostra Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Lasceranno il segno anche alcune delle questioni irrisolte sollevate dai progetti esposti. Il fatto che sempre più artefatti siano imbottiti di componenti elettronici significa creare problemi per lo smaltimento dei rifiuti negli anni a venire: oggi ad esempio in Europa e America i vecchi computer vengono smaltiti in modo speciale; ma che cosa capiterà quando ciascun oggetto sarà al suo interno come un mini computer? Un progetto in cui sono coinvolto, chiamato Balk Talk e sviluppato proprio per il MoMA, usa dei microchip tracciare in tempo reale molte centinaia di componenti elettronici nei loro percorsi di riciclo o di riuso dagli Stati Uniti a Paesi emergenti quali Ghana, India, Cina, Nepal, Indonesia, Chile. Un'ultima questione interessante è poi la cacofonia che potrebbe creare il 'parlare' continuo di tutti gli oggetti che ci circondano. Un collega rientrato di recente da una visita presso un elegantissimo hotel asiatico faceva notare come l'uso estensivo di sensoristica e domotica creasse dei corto-circuiti curiosi: aprendo le tende si spegneva l'aria condizionata; chiudendo il frigo si innescava automaticamente la doccia. Come a dire: Parlami sì, ma non straparlare. Carlo Ratti
Marc Owens: Avatar Machine, 2008. Diversi materiali e pezzi elettronici. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Marc Owens: Avatar Machine, 2008. Diversi materiali e pezzi elettronici. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
24 luglio – 7 novembre 2011
Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects
MoMA, Special Exhibitions Gallery, terzo piano
Vista della mostra <i>Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects</i> al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Vista della mostra Talk to Me: Design and the Communication between People and Objects al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Jaakko Tuomivaara, Communication Art and Design Department, Royal College of Art: Hide & See, 2010. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.
Jaakko Tuomivaara, Communication Art and Design Department, Royal College of Art: Hide & See, 2010. Vista dell'installazione al Museum of Modern Art, 2011. Photo © Scott Rudd.

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