Avete formazioni diverse: Filippo Di Giovanni dopo l'Accademia di Belle Arti di Urbino è stato assistente di Pier Paolo Calzolari - e artista lui stesso tra Parigi e il Belgio; Roberto Dipasquale è chimico e ha lavorato con Marco Gastini e soprattutto in studio da Gilberto Zorio; gli altri vostri soci sono stati assistenti di Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Luigi Mainolfi, i protagonisti dell'Arte Povera. Che rapporto si instaurava lavorando negli studi di questi artisti?
Filippo Di Giovanni: Nello studio di Pier Paolo Calzolari mi occupavo principalmente della preparazione delle mestiche e seguivo le fasi preparatorie delle sue grandi tele. Ho iniziato anche a occuparmi dell'assemblaggio delle strutture ghiaccianti, con i problemi che esse comportavano: dalla lavorazione del piombo alla costruzione di frigoriferi. Negli anni '80-'90, essere assistenti significava "stare a bottega", senza stipendio, giorno e notte: la tensione che si viveva, collaborando alla nascita delle opere, ci ha permesso di partecipare alla 'sensibilità' dell'artista.
Roberto Dipasquale: Il lavoro in studio ci obbligava ad acquisire specializzazioni diverse: pittura, metallurgia, fonderia... Le opere che nascevano in studio erano ovviamente frutto della creatività dell'artista, con il quale si finiva per instaurare un rapporto simbiotico, una vera osmosi a livello emotivo e intellettuale.
I materiali si andavano a scegliere insieme, si inventavano attraverso gli errori e con la costante necessità di abbattere i costi. Per noi era un grande orgoglio la realizzazione tecnica delle opere, spesso anche con mezzi di fortuna; il lavoro era empirico piuttosto che scientifico, si procedeva per tentativi e sperimentazioni.
Filippo Di Giovanni: Per gli artisti avere noi in studio era un elemento fondamentale di controllo della loro opera: la produzione dei pezzi meccanici non era più affidata a fornitori esterni, bensì a noi che li producevamo all'interno. La nostra era quindi una professionalità sempre più specializzata, ma ricordiamoci che si parlava di "soldi zero", finché non abbiamo attuato delle piccole rivendicazioni sindacali chiedendo di avere uno stipendio. Il salto qualitativo è arrivato in quel momento: come gruppo di assistenti, abbiamo capito che il nostro era un lavoro vero, che il nostro contributo era importante a livello intellettuale e artistico, oltre che pratico, e per questo andava retribuito.
Roberto Dipasquale: A metà degli anni Novanta eravamo sostanzialmente un gruppo di amici che gravitavano attorno ad alcune gallerie torinesi, ad esempio la Tucci Russo e la Galleria Persano, ed è così che ci siamo conosciuti. A un certo punto veniamo chiamati a lavorare per un'istituzione, il Castello di Rivoli. L'allora direttrice – che consideriamo la nostra "madrina" – Ida Giannelli è stata tanto lungimirante da comprendere l'importanza di avere uno staff tecnico all'interno del museo. Vide in noi delle potenzialità e una professionalità definita che noi stessi non ci rendevamo conto di avere. Con il suo insegnamento abbiamo imparato a pianificare i nostri interventi, a organizzarci e a richiedere un compenso adeguato. In questo modo abbiamo provato l'orgoglio di avere una professionalità riconosciuta a livello internazionale e siamo diventati specialisti che si dovevano occupare dell'opera d'arte e non più del lavoro dell'artista.
Filippo Di Giovanni: La nostra presenza nel museo garantiva agli artisti la corretta installazione e conservazione delle loro opere, facilitando il dialogo tra l'istituzione museale e i singoli artisti. Inoltre, già nel 1990 ero stato chiamato come responsabile tecnico alla Documenta di Kassel, e già in quell'occasione avevo capito che si trattava di un lavoro a tutti gli effetti.
Roberto Dipasquale: Lavorare per un'istituzione museale ha cambiato la nostra percezione dell'opera d'arte: in studio era un oggetto, da fare e rifare, da prendere e buttare in un angolo e poi ricostruirlo. Non avevamo idea di valori assicurativi, non avevamo questo tipo di attenzione: l'arte era per noi un processo di sviluppo di idee. Quando poi questi "oggetti" - le opere- entravano nel museo, indossavamo i guanti bianchi: in questa metafora è racchiuso il senso del nostro mestiere.
Questo riguarda opere di cui avete seguito la realizzazione. Cosa accade invece per opere storiche? Come procedete ad esempio alla ricostruzione di un ambiente?
Filippo Di Giovanni: Prendiamo il caso di un ambiente spaziale di Fontana, conservato nei depositi del Castello di Rivoli che abbiamo avuto modo di allestire più volte. Parte del materiale che lo compone è ormai praticamente inutilizzabile; per il riallestimento che stiamo approntando dobbiamo necessariamente integrare il preesistente con nuovi elementi, che ci permettano di riottenere l'effetto cercato da Fontana. Per questo tipo di opere non ci possiamo basare solamente sulla documentazione fotografica ma dobbiamo rifarci alle prescrizioni degli artisti; spesso l'intervista rappresenta uno strumento conservativo fondamentale, ormai sono pochi i depositari di queste informazioni.
Un altro esempio è legato agli allestimenti degli igloo di Mario Merz: Antonio Zaccone, un nostro socio, che ha per anni lavorato direttamente con l'artista, riesce a riportare esattamente l'aura originale dell'opera in ogni suo riallestimento.
L'arte era per noi un processo di sviluppo di idee. Quando poi questi "oggetti" - le opere- entravano nel museo, indossavamo i guanti bianchi: in questa metafora è racchiuso il senso del nostro mestiere
Roberto Dipasquale: Come società rivendichiamo che la nostra figura rimanga ibrida. C'è grande collaborazione con i restauratori e i conservatori ma ci rendiamo conto di essere indispensabili in alcune situazioni, ad esempio nell'allestimento di installazioni complesse come alcuni ambienti di arte cinetica e programmata. Accade spesso che da una parte il conservatore non sappia agire su un impianto elettrico o installare un neon, e dall'altra un semplice elettricista non se la senta di intervenire su un'opera d'arte assicurata per centinaia di migliaia di euro.
Roberto Dipasquale: La struttura che ha permesso l'ingegnosa installazione della personale di Cattelan al Guggenheim è altamente tecnologica. Un complesso sistema di motori che muove la struttura ha consentito di installare in modo così particolare le singole opere; il tutto doveva soddisfare esigenze conservative, espositive e di sicurezza. È l'esempio di un lavoro sinergico fra l'artista e molti tecnici di discipline diverse; credo sia una direzione verso la quale si stia polarizzando l'arte contemporanea.
Cattelan ha nuovamente fatto centro…
Roberto Dipasquale: Certamente. Ha fatto un'operazione artistica inedita e ancora una volta disorientante. Cattelan è riuscito a ideare un'opera nuova, costituita da tante sue opere d'arte che non gli appartengono più. Un altro aspetto interessante è legato alla documentazione prodotta nel corso dell'allestimento. Durante l'installazione è stato ripreso e fotografato proprio tutto: un'altra frontiera verso la quale si sta muovendo il lavoro numerosi artisti.
Filippo Di Giovanni: La progettazione del padiglione giapponese è durata un anno, a stretto contatto con Tabaimo, artista che lavora su proiezioni video e animazioni ad altissima tecnologia.
In questo caso il nostro lavoro non è stato puramente allestitivo ma si è reso indispensabile aprire una lunga discussione che ha coinvolto in primo luogo l'artista, oltre a una serie di tecnici specializzati. Tutti gli sforzi sono stati rivolti verso la ricerca della semplificazione tecnica e della riduzione dei costi. Abbiamo cercato di trasformare le idee e le richieste di Tabaimo in un lavoro concreto; molto spesso diventiamo degli interlocutori diretti degli artisti, con loro realizziamo fisicamente le opere, cercando ogni volta le soluzioni tecniche più corrette. La giusta progettazione ci ha permesso di ridurre i tempi d'allestimento del padiglione, passando dai venticinque giorni stimati inizialmente agli undici effettivi di lavorazione. Anche questo ha permesso di contenere i costi, mantenendo comunque un'altissima qualità d'esecuzione. Gli ultimi giorni sono stati impiegati per la sola rettifica dei video, lavorando con tecnici provenienti dal Giappone.
Filippo Di Giovanni: La proiezione doveva essere riprodotta su superfici specchianti, in un ambiente il più coinvolgente possibile per lo spettatore. Con l'artista abbiamo optato per l'utilizzo di comuni cristalli specchianti, cercando di semplificare il più possibile gli elementi compositivi del padiglione, escludendo altri materiali come plexiglass e pellicole riflettenti.
Per l'allestimento e la realizzazione del padiglione abbiamo lavorato in stretto contatto con la Super Factory, una giovane azienda giapponese con cui in passato avevamo allestito il Dream Temple di Mariko Mori al Museo di Arte Contemporanea di Tokyo; con loro è nata una seria e proficua collaborazione, in cui lo scambio di competenze e lavori ha arricchito entrambi. Laura Calvi, Giulio Cattaneo