What ever happened to Italian architecture?

Due giorni di dibattito all'Istituto Svizzero di Roma, dipingono un panorama disastroso agli occhi di un giovane progettista. Report di Gianfranco Bombaci [www.2ap.it]

Lo scorso 15 e 16 ottobre si è svolto a Roma un simposio con l'ambizioso obiettivo di incoraggiare il dibattito critico e consentire un aperto scambio sulla cultura architettonica in Italia, ben organizzato dalla DEPART Foundation e dall'Istituto Svizzero che ne ha anche ospitato gli incontri nella sua splendida sede di Villa Maraini. Il curatore e moderatore, Reto Geiser, ha dato inizio alla prima giornata, dedicata al Passato, con una sua introduzione, il cui assunto di base è inconfutabile: nel secolo scorso, figure individuali come Rossi, Gregotti e Tafuri, o gruppi come Archizoom e Superstudio, hanno costruito una cultura dell'architettura, in Italia, capace di assumere una posizione di rilievo all'interno del dibattito internazionale. In seguito, il tramonto di manifesti e visioni ha gradualmente fatto uscire di scena l'architettura italiana, messa in disparte da forze commerciali e speculative.

La prima serie di interventi, di Paolo Scrivano e di Elli Mosayebi, ha illustrato il ventennio d'oro del secondo dopoguerra in Italia. Le esperienze di ricostruzione dell'INA-Casa e l'approccio culturale, intrapreso da un'imprenditoria illuminata come quella di Adriano Olivetti, raccontano di una Italia-laboratorio che ha sviluppato un suo modernismo artigianale, dove il ruolo politico e sociale dell'architettura si è concretizzato in edifici, testi e manuali, capaci di suscitare l'attenzione di tutto il mondo. Il successivo intervento di Martino Stierli si è concentrato, infatti, sullo "scambio transatlantico" tra Italia e Stati Uniti, riportando l'esperienza all'Accademia Americana a Roma, negli anni Cinquanta, di due prestigiosi statunitensi come Louis Khan e Robert Venturi.
Baukuh: progetto di concorso per il padiglione italiano  a Shangai
Baukuh: progetto di concorso per il padiglione italiano a Shangai
Ma sono stati Filip Geerts e Mark Wasiuta a far entrare il primo "elefante" nella stanza. È questa un'espressione idiomatica anglosassone, utilizzata per indicare un problema ovvio ed evidente di cui non si vuole parlare, perché imbarazzante o perché considerato un tabù. Geerts ha, infatti, concentrato il suo intervento sull'opera teorica di Vittorio Gregotti, mentre Wasiuta ha riletto, subito dopo, l'esperienza radicale attraverso la descrizione di "Italy: the new domestic landscape". Ed è stata immediata la reazione di Pippo Ciorra, discussant tra il pubblico in questa prima giornata, che ha subito puntualizzato come il simposio stesse affrontando il delicato tema di "un campo di battaglia", dove due diverse utopie si sono scontrate senza esclusione di colpi. Un "elefante" ingombrante quello ideologico, che, tra pregiudizi e sospetti, rende ancora oggi impossibile un sereno e propositivo confronto con un pezzo fondamentale della storia della nostra cultura. Francesco Garofalo ha concluso la prima giornata con un intervento articolato in quattro parole chiave: la cultura, l'ideologia, la parabola e l'eredità di alcuni importanti progettisti italiani. Il tema della cultura è stato strutturato in un racconto per immagini di tutte le esposizioni ospitate dalla Biennale di Venezia e dalla Triennale di Milano, mentre la questione ideologica è stata approfondita all'interno del quadro conflittuale tra radicali e operaisti, già evocata da Ciorra. Ha descritto quindi le "parabole professionali" di Gregotti, Aymonino, Portoghesi, Branzi e Natalini attraverso il confronto tra primi e ultimi progetti, sottolineando, infine, l'esistenza di una "eredità" progettuale lasciata da progettisti come Scarpa e Quaroni.

The new domestic landscape. Da Domus 510, maggio 1972
The new domestic landscape. Da Domus 510, maggio 1972
Il secondo giorno, dedicato al Presente, Alberto Alessi ha affrontato il tema dell'italianità, attraverso un pungente intervento sui clichè che caratterizzano la percezione del nostro paese all'estero. Le sue provocazioni hanno sgombrato il campo dalla questione dell'identità nazionale e il senso della domanda del simposio ha assunto più chiarezza, ma anche maggiore "brutalità" per Pierpaolo Tamburelli, il quale ha proposto un serio e consapevole confronto con l'opera di Rossi e Tafuri, finalizzato alla selezione di strumenti utili alla progettazione, al di là di paure e furbizie. Ed è nel declino della politica che il socio dello studio Baukuh individua l'origine del declino culturale del Belpaese, invitando il secondo e ingombrante elefante ad entrare nella stanza: un ventennio Berlusconiano con relativa sottocultura individualistica. Ha cercato infine di squarciare l'alone di pessimismo che dal giorno precedente ha cominciato a pervadere la sala, con un suo personale vademecum per il futuro: più realismo e più ambizione, meno ideologia e più pragmatismo, maggiore senso di responsabilità e abbandono di mediocrità e provincialismi. Matteo Scagnol e Sandy Attia, di Modus Architects, hanno avuto, in seguito, il compito di creare una parentesi di progetti di architettura, di cui sino al loro intervento si è visto ben poco, ragionando su come esistano dialetti di architettura all'interno di un linguaggio internazionale. Ma subito dopo, Fabrizio Gallanti ha riportato la discussione sul tema politico e su come il legame tra architettura, urbanistica e governo del territorio sia una peculiarità tutta italiana. Si parte dal '68, con la celebre foto dell'occupazione della Triennale di Milano curata da De Carlo, per snocciolare in nove punti la recente storia politico/architettonica. Immagini di architetti-assessori come Nicolini e Cervellati raccontano di un'Italia dove progetto politico e immagine architettonica hanno affrontato enormi questioni sociali e culturali, avviando un'eroica stagione urbanistica e di edilizia pubblica. Scorre sullo schermo anche un giovane Berlusconi di fronte al plastico della sua Milano 2, per sancire l'inizio di un'era all'alba degli anni Ottanta: quella della casa come mercato e non più come necessità, di un'edilizia che si separa drammaticamente dall'architettura. L'ultimo punto infine è dedicato al mentore di Gallanti, come lui stesso lo definisce: la candidatura alle primarie di Stefano Boeri per l'elezione a sindaco di Milano. La storia si ripete, l'architettura torna in politica e, parafrasando lo stesso De Carlo, definisce una strategia: "la politica è una cosa troppo importante per essere lasciata in mano ai politici".

Immagini di architetti-assessori come Nicolini e Cervellati raccontano di un'Italia dove progetto politico e immagine architettonica hanno affrontato enormi questioni sociali e culturali, avviando un'eroica stagione urbanistica e di edilizia pubblica.
Modus Architects (Matteo Scagnol, Sandy Attia), Casa Elvas, Bressanone, 2008. Photo Jurgen Eheim
Modus Architects (Matteo Scagnol, Sandy Attia), Casa Elvas, Bressanone, 2008. Photo Jurgen Eheim
Joseph Grima ha restituito, infine, una descrizione numerica della situazione italiana. Rovesciando il titolo della celebre mostra di Rudofsky "Architecture without architects", Grima ha descritto un'Italia di "Architects without architecture", dove risiedono cioè il maggior numero d'architetti e dove si costruiscono il minor numero di architetture al mondo: siamo insomma l'immagine speculare della Cina. E quando i dati si spostano sul versante della formazione, entra, imponente, il terzo elefante nella stanza: in Italia abbiamo il maggior numero di università e di studenti di architettura di tutta Europa. Troppi architetti per una professione in affanno e sostanzialmente priva di mercato in Italia, dove, sempre secondo i dati di Grima, dopo dieci anni di duro lavoro si guadagnano mediamente 1.200 euro al mese.

Modus Architects (Matteo Scagnol, Sandy Attia), Casa Elvas, Bressanone, 2008. Photo Jurgen Eheim
Modus Architects (Matteo Scagnol, Sandy Attia), Casa Elvas, Bressanone, 2008. Photo Jurgen Eheim
È cominciata quindi la tavola rotonda finale che avrebbe dovuto affrontare il tema del Futuro, ma purtroppo, sebbene le sedie fossero state disposte, democraticamente, in circolo, i troppi elefanti nella stanza hanno incagliato il dibattito sulle solite tematiche: università, responsabilità politica, spettri ideologici. E, progressivamente, piccoli "Dumbo" si uniscono alla festa degli elefanti: il sistema dei concorsi, le collusioni politiche degli architetti, la distrazione dell'editoria di settore, la latitanza degli istituti di cultura italiani all'estero. Ne esce un quadro disastroso che, neanche sul suolo, per definizione "neutrale", dell'Istituto Svizzero, e malgrado la buona volontà degli organizzatori, si è riusciti a superare individuando possibili strategie di ripresa.
Francesco Garofalo. Photo Diana Mellon
Francesco Garofalo. Photo Diana Mellon
Un tema è ormai chiaro: nel grande ciclo di corsi e ricorsi storici, la cultura architettonica internazionale del dopo star-system, affronta una crisi teorica che, per riflesso condizionato, la fa rivolgere verso quella Italia che tanto ha prodotto in termini teorici e disciplinari, in cerca di nuovi punti di riferimento. Da qui lo sgomento per un'architettura italiana che, invece, sembra non avere niente da dire.

Eppure, come giovane architetto attivo sul campo, non riesco a identificarmi in questo scenario. Non riconoscendomi in ideologie pregresse e ormai passate, penso di avere il diritto, e forse anche il dovere, di studiare, con onestà intellettuale, ed elaborare la storia, la tradizione e la produzione teorica della nostra cultura, da Rossi a Tafuri, da Branzi a Gregotti, senza per questo dover essere accusato di essere reazionario o neoconservatore. Qualcuno, a suo tempo e per sue ragioni, ha "ucciso i padri" della nostra generazione senza preoccuparsi di crescerne i figli, i quali, da autodidatta, si sono fatti le ossa in un mondo che è cambiato molto rapidamente ed è diventato globale. L'Italia ospita in questo momento numerose realtà professionali capaci di confrontarsi pienamente con il contesto internazionale, attraverso progetti, iniziative editoriali ed esposizioni. Questa condizione, però, si esaurirà presto, dato che giovani progettisti trentacinquenni europei cominciano a realizzare progetti importanti, mentre i nostri restano sulla carta. L'attuale classe dirigente ed intellettuale del Paese deve farsi carico di questa responsabilità, riprendendo un discorso di continuità teorico-critica, culturale e politica capace di interpretare, supportare e indirizzare le nuove generazioni di progettisti. Oppure farsi da parte. Altrimenti non ci resterà che continuare a canticchiare ossessivamente la solita rassicurante filastrocca: "tre elefanti si dondolavano sopra il filo di una ragnatela…". Gianfranco Bombaci

Note:
Elli Mosayebi ha proiettato alcune scene tratte da "Le mani sulla città" di Francesco Rosi [http://www.youtube.com/watch?v=tuhY3AtRIsA&feature=related]
Baukuh, Video del progetto per il Padiglione Italiano all'Expo 2010 di Shangai
[http://www.youtube.com/watch?v=7N-YBhclyyE]
Fabrizio Gallanti ha proiettato alcune scene tratte da "Sfrattato Cerca Casa Equo Canone" di Pierfrancesco Pingitore [http://www.youtube.com/watch?v=-pulp8F7wac]
e da "Fame chimica" di Antonio Bocola e Paolo Vari [http://www.youtube.com/watch?v=_bW9WfWQL_4]
Joseph Grima. Photo Cecilia Fiorenza
Joseph Grima. Photo Cecilia Fiorenza
Paolo Scrivano. Photo Diana Mellon
Paolo Scrivano. Photo Diana Mellon
Reto Geiser. Photo Cecilia Fiorenza
Reto Geiser. Photo Cecilia Fiorenza

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