Giacomo Borella di Studio Albori, insieme alle insegnanti della scuola Asnada ha chiesto agli studenti del corso di italiano per stranieri (e ad alcuni italiani curiosi) di rappresentare tre luoghi importanti della loro vita: un luogo del "prima", un luogo del "viaggio" (o di un momento di passaggio), un luogo dell'"oggi". A loro disposizione, un tavolo lungo 20 metri pieno di cartoni, cartoncini, pastelli, argilla, pongo, legnetti, semi, tempere, matite, stuzzicadenti, foglie, sassi... Il risultato è stato un racconto corale fatto per frammenti di luoghi e memorie, che hanno a che fare con il tema dello spostarsi, del viaggio, della casa e del ricordo. Sono luoghi dell'oggi, della memoria e a volte sono proiezioni di un desiderio.
Le piccole sculture erano presentate su piedistalli in materiali di recupero – pezzi di legno e cassette di vino collezionate negli anni dallo Studio Albori – ed erano collocate su una mappa dipinta a terra in azzurro, dove i Paesi si posizionano e si gonfiano a seconda dei limiti dati dal perimetro della ex-palestra, ma anche del numero di miniature collocate in un determinato luogo. La geografia del vissuto era invece formata da un intrico di relazioni, una mappa parallela sospesa in alto, sopra le teste dei visitatori, fatta di fili colorati tirati da un angolo all'altro della stanza. I fili di cotone collegano i luoghi di ciascun viaggiatore-narratore. Legando fisicamente i pezzi di vita di ciascuno, generano una carta personale, una mappa che definisce l'identità come un concetto mobile e in evoluzione, a partire da un percorso più che da un'idea fissa di appartenenza nazionale. La terza geografia della mostra era quella affissa alle pareti e racconta il viaggio. Per questo "luogo" si è reso necessario il disegno inciso, tecnica più immediata, chirurgica e simbolica che prima copre, cancella il foglio con i pastelli a olio e poi fa riaffiorare la memoria attraverso un graffio sulla superficie, come uno scavo archeologico del vissuto. Ogni disegno è una mappa a sé: a volte condensa il viaggio nell'immagine del mezzo di trasporto – la barca, l'aereo – mentre altre volte prende la forma di una carta, di uno schema, di un racconto. Spesso i disegni sono molto piccoli, forse per far emergere, delicatamente e in modo discreto, tutta la complessità di un'esperienza difficile da raccontare o forse perché un A4 sembra troppo poco per tutta quella storia. Molti contengono parole, nomi di paesi, frecce, linee di frontiere attraversate. Le incisioni e le microarchitetture sono un invito ad ascoltare il racconto del loro fuoricampo: ogni miniatura è accompagnata da un testo in italiano scritto dall'autore, che ne racconta il contorno.
Gli spazi tridimensionali raccontati in questa mostra erano una collezione di frammenti con diversi gradi di zoom. Li si poteva vedere dall'alto, come edifici scoperchiati o vedute a volo d'uccello a varia scala, oppure come se si fosse immersi nello spazio. Si potevano vedere sezioni degli interni o sbirciare attraverso porte e finestre. Raramente c'erano persone. Per raccontare un luogo, a volte, serve rappresentare uno spazio ampio, un'intera piantagione di cacao (Jean-Michel, Costa d'Avorio) o una casa con tanto di luce elettrica (Abubakary, Gambia), mentre altre volte è sufficiente una scala (Jeronimo, Cile) o un tavolo (Moses, Ghana). Può essere un momento, come l'iniziazione alla circoncisione di Papyss, in cui il "luogo" è un uomo in argilla. L'idea di luogo fluttuava da un'immagine a un oggetto, da un'architettura o uno spazio a una porzione di spazio, che racchiudeva tutto il condensato simbolico del ricordo. La maggior parte di questi luoghi del passato portava, attraverso il viaggio, a Milano. La Milano raccontata da questa mostra è una città di punti, un insieme di spazi che a volte si ritrovano o si completano. C'è la "casa della mia immaginazione" (Noa, Romania-Italia-Canada), c'è l'autobus 82 di Moustafa (Egitto), ci sono molte Asnada, nella biblioteca e ci sono gli scaffali e il forno dove lavora Ibrahim (Egitto) che, di notte, come fornaio, ha cotto dei micro-panini per riempire la sua miniatura di pane vero. Spesso ci sono spazi più grandi, la Galleria Vittorio Emanuele raccontata come un tempio (Tien Phan, Vietnam) o la Stazione Centrale che è allo stesso tempo una quinta teatrale (Manuela, Ecuador), una scatola vuota e colorata, con le arcate in filo di ferro (Sharif, Egitto) o un insieme di fasci di carta srotolati che muovono lo spazio come l'andirivieni dei treni e delle persone (Ibrahim, Niger). Namory (Costa d'Avorio) racconta la vista dalla sua finestra come se si trovasse al 20esimo piano di un grattacielo, con gli edifici intorno piccoli piccoli. Ci sono un paio di campi da calcio visti in pianta e molti modellini di parchi ampi, con tanto verde e vuoti di gente: il Parco Sempione e il parco vicino a viale Certosa, grande, vuoto, dipinto di tempera e sabbia, con panchine di pongo verde e un omino seduto: "Quando vado non vado con qualcuno, vado solo. Quello sulla panchina sono io, Ahmad" (Ahmad, Egitto).
La maggior parte di questi luoghi del passato portava, attraverso il viaggio, a Milano. La Milano raccontata da questa mostra è una città di punti, un insieme di spazi che a volte si ritrovano o si completano.
Il catalogo – il "foglio di sala", come era stato pensato originariamente – trasferiva su carta la sensazione di girare per la mostra, accucciarsi accanto a una miniatura, piegarsi per leggere un testo, avvicinarsi per osservare un dettaglio. È quindi un microcatalogo, un atlante delle miniature disegnate a mano da Giacomo Borella e stampato in 225 esemplari serigrafati da ElsE (Edizioni Libri Serigrafici E altro). Marco Carsetti di ElsE specifica che si tratta di un vero e proprio libro in miniatura, che ne mantiene in piccolo tutte le caratteristiche: dalla copertina, alla sovraccoperta, dal frontespizio alla progettazione in trentaduesimi, fino alla rilegatura. Questo per conservare, anche durante il processo di lavorazione artigianale, l'immersione nelle "minuscole cose da gestire con i polpastrelli", nel piegare la carta con la punta delle dita, nello sfogliare le pagine con stessa la delicatezza che hanno usato gli studenti di Anada per realizzare le loro miniature.
Nel 2010, Studio Albori ha tenuto un laboratorio simile a questo a Roma, con gli studenti di Asinitas, la scuola "mamma" di Asnada. Entrambe le mostre sono molto affascinanti e piene di stimoli. È facile perdersi nella contemplazione dell'oggetto in miniatura, azzardare letture trasversali o farsi trasportare dall'impatto emotivo dell'allestimento e dal fascino per queste sculture "spontanee". Per non fermarsi a facili interpretazioni, buoniste ed estetizzanti, è importante ricordare il presupposto su cui poggia tutto il lavoro di Asinitas e Asnada. Le due associazioni si muovono in ambito educativo e di intervento sociale con scuole di italiano, laboratori e numerosi altri progetti legati alle memorie della migrazione. Il concetto cardine delle scuole di italiano è quello di "abitare la lingua", dell'apprendimento della lingua come "riannodamento interiore", sintesi tra passato e futuro e dunque esperienza in senso allargato, che passa spesso dall'utilizzo di un "pre" linguaggio (corporeo, vocale, gestuale) per rielaborare un vissuto spesso traumatico e comunicare quel dolore per lo sradicamento, quella scissione che chi abita in un paese straniero, in misura diversa, vive. Imparare una lingua comporta una traduzione non solo della grammatica o dei vocaboli, ma una traduzione del sè ben più complessa e profonda. Asnada/Asinitas lavorano parallelamente su questi livelli, adottando metodi didattici che comportano l'esperienza tattile, usando il corpo e narrando la propria autobiografia attraverso laboratori manuali, canti, giochi. Per questo, sotto ogni microarchitettura ci sono i testi-esercizi scritti dagli studenti in italiano. Per questo le microarchietture sono "balsamiche", nel senso di salubri e lenitive, in grado cioè di trasformare la ferita di un'esperienza tragica attraverso la creazione e la condivisione di un oggetto "bello". Questa mostra crea uno spazio di tensione tra i linguaggi che usa, le storie che racconta, le autobiografie e i luoghi delle persone, il planisfero che disegna, il luogo in cui è installata – un circolo Arci, spazio di socialità e cultura diffusa. Non è semplicemente una mostra di architetture, nè un'installazione di arte contemporanea. È qualcosa di molto più denso, rispettoso e intenso, che parla di alterità e identità e luoghi dell'abitare in prima persona, sfuggendo alle normali catalogazioni, letture esterne e suddivisioni disciplinari a cui siamo abituati.
L'articolo di Francesca Cogni è disponibile con licenza Creative Commons BY-NC-SA
Un premio per l'architettura tra luci e volumi: LFA Award
Un concorso fotografico internazionale che invita fotografi di tutto il mondo a catturare l'essenza dell'architettura contemporanea. Ispirato all'opera del celebre fotografo portoghese Luis Ferreira Alves, il concorso cerca immagini che esplorino il dialogo tra uomo e spazio.