Queste domande sono spesso affrontate, ma raramente ricevono delle risposte chiare. Wallis Miller, nel suo trattato sulle opere e le mostre di Ludwig Mies van der Rohe, fa riferimento ad alcune esposizioni progettate da Mies, o in cui ha partecipato o tratto beneficio (esposto e recensito allo stesso tempo), semplicemente come i suoi exhibition projects (Wallis Miller, "Mies and Exhibitions", in Mies in Berlin, ed. Terrence Riley & Barry). Così tante sono le modalità e le ragioni con cui il media espositivo ha lavorato con l'architettura che diviene una questione di precisione, se non semplicemente di chiarezza, affrontare il processo di organizzare una mostra come se fosse una disciplina a se, e non, come Philip Johnson ha sostenuto, una semplice "ramificazione dell'architettura" (Ibid., 338).
Poiché gli architetti progettano delle forme in relazione a un determinato spazio, sembrerebbe quasi che le mostre, essendo delle forme in uno spazio, diventino di conseguenza degli oggetti architettonici esse stesse. Questo sembra essere evidente, soprattutto nel testo di Mary Anne Staniszewski sugli spazi espositivi per l'arte e su come si sono sviluppati in parallelo con l'architettura. Diventa però difficile sostenere lo stesso punto di vista quando si ha a che fare con le mostre d'architettura. Come può l'architettura essere allo stesso tempo oggetto e contesto? Quest'articolo tratterà proprio della funzione delle mostre, anche come attività a sé, promotrice del discorso architettonico – al di là del potenziale espressivo dell'oggetto stesso, l'edificio. Quello che noi chiamiamo esposizione di architettura riveste in realtà una gran varietà di attività e anche una moltitudine di intenzioni e approcci da parte degli organizzatori. Dai progetti come il quartiere residenziale Interbau costruito per l'Esposizione Internazionale di Architettura a Berlino (1957) alla mostra d'immagini e disegni architettonici al MoMA nel 1932 che permise a Alfred Barr, Henry Russell Hitchcock e Philip Johnson, curatori della mostra, di definire lo stile internazionale all'interno dell'architettura moderna, alla presentazioni promozionali dei progetti dei principali concorsi d'architettura o incarichi progettuali o ancora per celebrare la realizzazione di un edificio. Tutte queste varie forme sono generalmente considerate mostre d'architettura. Queste molteplici sfaccettature espositive non solo sono allestite con obiettivi, scale e audience diversi, ma si dimostrano anche delle espressioni d'architettura inconciliabili tra loro. Da una parte, mostrano diversi aspetti della disciplina, dall'altra sottolineano un problema di fondo legato alle mostre d'architettura – quello della rappresentazione.
A parte la costruzione di veri e propri edifici per le esposizioni, come nel caso dell'Interbau, le esposizioni d'architettura sono di solito mostre di rappresentazione: disegni, fotografie, modelli, film e più recentemente, i nuovi media. L'idea che queste rappresentazioni architettoniche debbano essere esposte, piuttosto che le opere di architettura in sé – una situazione che lascerebbe perplessi molti artisti – nacque con le dottrine dell'École des Beaux-Arts del diciannovesimo secolo, quando il modello di apprendistato per gli architetti, dominante in Francia fino a quel momento, fu soppiantato dal sistema accademico, in cui un'educazione sistematizzata attraverso corsi, esercizi progettuali e concorsi culminava in premi e mostre (Paul P. Cret, "The Ecole des Beaux-Arts and Architectural Education", The Journal of the American Society of Architectural Historians, Vol. 1, No. 2, Apr. 1941, University of California Press 1941). I critici hanno fatto notare che il continuo ricorso da parte delle scuole ai concorsi – che, non esistendo nessun altro documento di presenza accademica, era d'altra parte anche l'unica prova d'immatricolazione che c'era – causava due problemi di tipo pedagogico. Primo, gli studenti producevano dei lavori che non erano necessariamente i migliori, ma piuttosto erano indirizzati al gusto dei professori presenti nella giuria dei concorsi (un problema che persiste anche ai giorni nostri). Il secondo, che i progetti erano giudicati sotto forma di piante, sezioni e prospetti, disegnati su tavole rettangolari, in cui le piante, o parti, erano considerate le più importanti delle tre (Jean Paul Carlhian, "The Ecole des Beaux-Arts: Modes and Manners", in Journal of Architectural Education, Vol. 33, No. 2, Beginnings novembre, 1979). L'importanza delle mostre come mezzo di comunicazione per l'architettura divenne così intrinsecamente legata alla presentazione di queste tre rappresentazioni – il beau plan può essere apprezzato anche da un punto di vista pittorico, oltre che da quello spaziale, formale e contestuale. Di conseguenza, le immagini di architettura, anche se non erano esplicitamente architettura, assunsero il carattere di opere d'arte in mostra: schizzi e disegni originali, disegnati direttamente dagli architetti, divennero essi stessi oggetti preziosi. Alla scuola di architettura della Bauhaus in Weimar, le mostre erano adoperate in maniera simile, cioè per esporre i lavori degli studenti sotto forma di disegni e modelli di edifici e di altri oggetti di design. A parte, forse, l'unica eccezione della Sommerfeld House (1920/21) in cui vari studenti della Bauhaus progettarono tra loro differenti parti, dettagli e anche l'arredamento dell'edificio, le mostre della Bauhaus servivano principalmente a presentare al pubblico la produzione creativa della scuola e a giustificare i finanziamenti che ricevevano dal governo locale. In breve, né l'École des Beaux-Arts né la Bauhaus, nel fissare e codificare le norme basilari dell'esporre architettura, pensarono di usare le mostre come oggetto in sé, come esperienza diretta di espressione architettonica – ma piuttosto come un luogo in cui i concetti sono solamente rappresentati. Così come ai tempi delle mostre organizzate dalla Bauhaus, il mettere in mostra il design di un edificio per soddisfare vari aspetti professionali, come la ricerca di fondi e la promozione, continua ancora oggi a essere l'incontrastata raison d'être delle mostre d'architettura.
Negli ultimi dieci anni, il Netherlands Architecture Institute (NAi), diretto da Kristin Feireiss, ha cercato di rompere questa formula consolidata. Nel 2001 ha pubblicato una raccolta di scritti sulle mostre d'architettura, ovvero una compilation degli unici testi esistenti su questo soggetto. Con saggi, tra gli altri, di Bart Lootsma, Jean-Louis Cohen, Elizabeth Diller e Catherine David, il volume contiene anche una sezione sulle mostre più fotogeniche organizzate dal NAi, nelle quali, anche se encomiabili da un punto di vista della presentazione e dell'intenzione, si percepisce una difficoltà di fondo nel trasmettere in una mostra i concetti d'architettura, ma anche la presenza dei problemi legati alla rappresentazione identificati dagli stessi autori. La mostra dedicata a Daniel Libeskind's al NAi, "Beyond the Wall, 26.36°" (1997), rappresenta un esempio indicativo. Intesa come una sfida ai canoni tradizionali delle mostre di architettura e un tentativo di presentare qualcosa aldilà della "mera rappresentazione di un edificio o di un particolare progetto", Libeskind ha voluto che la fruizione dello spazio, la "fusione di dimensioni apparentemente inconciliabili", fosse il principale oggetto della mostra stessa. Partendo dalle vaste dimensioni del padiglione espositivo come elemento base per una serie di manipolazioni geometriche, Libeskind ha installato, vicino all'ingresso, delle superfici in metallo piegato con dimensioni paragonabili alla scala dello stesso spazio espositivo – una sorta di edificio all'interno dell'edificio. Il riflesso e le forme inclinate che sembravano muoversi e contorcersi a mezz'aria, producevano una particolare esperienza sensuale connessa al movimento stesso del pubblico all'interno dello spazio. Libeskind aveva interpretato la mostra come un'opportunità per sperimentare con idee che sarebbero state difficili da implementare in un vero e proprio progetto. Alcune di queste superfici metalliche si muovevano automaticamente e il loro movimento produceva uno spazio continuamente diverso. Una trovata spesso immaginata, ma quasi mai tentato nella pratica professionale. Tuttavia, con l'aggiungere i disegni e i modelli provenienti dallo studio dell'architetto a queste installazioni, Libeskind e il curatore della mostra, Kristin Feireiss, di fatto, hanno screditato il potenziale espressivo della mostra – la sua capacità di trasmettere fisicamente dei concetti architettonici, attraverso la spazialità, la luce e la materia. L'appendere le tavole di progetti precedenti, sembrava quasi essere un gesto di pura facciata per assicurarsi che un certo pubblico percepisse "Beyond the Wall" come una mostra d'architettura. L'architettura di Libeskind, costruita fisicamente all'interno della mostra, avrebbe potuto esprimere delle idee architettoniche del tutto nuove, ma alla fine è diventata semplicemente strumentale alla scenografia – i pannelli metallici mobili usati come supporto strutturale ai disegni incorniciati.
Fondamentalmente, il ruolo del curatore è di fare da mediatore e di rendere accessibili al pubblico le idee, gli oggetti e le loro interrelazioni. Il contesto della mostra è uno dei pochi luoghi in cui gli artefatti culturali trovano uno spazio espressivo, ed è anche uno dei pochi in cui il pubblico è incoraggiato ad attribuire collettivamente significato e un senso ai prodotti della cultura umana. Particolarmente nel caso dell'architettura, il ruolo del curatore è ancora più importante, per il semplice fatto che l'architettura è vista ed è considerata in modo molto superficiale dalla gente comune rispetto ad altre forme artistiche quali, la cinematografia, la musica e la letteratura stessa. L'ubiquità dell'"architettura" a livello urbano e la nostra costante esperienza diretta con gli edifici hanno prodotto una sorta di diffusa apatia verso il lavoro degli architetti. La funzione del curatore delle mostre d'architettura è quindi duplice. La prima è quella di creare mostre d'architettura e non solamente la sua rappresentazione; la seconda invece è quella di educare il pubblico ad una sensibilità spaziale che permetta di relazionarsi all'ambiente costruito in modo cosciente e potenzialmente più responsabile. Mostre come "Die Wohnung unserer Zeit" (l'edificio dei nostri tempi) – organizzata da Mies van der Rohe a Berlino nel 1931, ventitré case a scala naturale furono costruite per la mostra, sei delle quali erano freestanding – oppure la mostra al MoMA nel 2008 "Home Delivery" di Barry Bergdoll e Peter Christensen (di cui cinque case prefabbricate costruite in scala nell'area del museo sulla cinquantaquattresima strada), sono difficili da organizzare per via della loro complessità logistica e dei grandi investimenti finanziari necessari. Allora come dovremmo esporre l'architettura senza fare ricorso alla sua rappresentazione, se le installazioni a grande scala – poco meno impegnative del costruire un edificio – non sono generalmente possibili? Ciò che bisogna contestare è la definizione stessa di architettura. In breve, senza approfondire ulteriormente, con il rischio di andare fuori argomento, vale la pena ricordare che l'architettura e l'edilizia non sono dei sinonimi. Così come non tutti i dipinti sono delle opere d'arte, non tutti gli edifici sono delle opere d'architettura. Negli Stati Uniti, non più di un quarto dell'ambiente costruito e una casa su dieci è stata progettata da un architetto (Avi Friedman. "Developing Skills for Architects of Speculative Housing", Journal of Architectural Education, Vol. 47, No. 1, settembre, 1993), p. 49). La maggior parte degli edifici è costruita da società immobiliari e ingegneri, per i quali l'architettura rappresenta solo una delle loro ultime preoccupazioni. K. Michael Hays, nella sua introduzione al catalogo della mostra dedicata a Diller + Scofidio's nel 2003 al Whitney Museum, sostiene che l'architettura è una manifestazione spaziale di un corpo di conoscenze in grado di associare le forme ad un contesto socio-culturale e che si articola in vari aspetti della cultura umana e non solo nella produzione di edifici. Seguendo questa linea di pensiero, allora, creare una mostra di architettura con successo, implica un processo di ricerca di questi aspetti architettonici che possono trovare espressione all'interno dei limiti imposti da uno spazio espositivo. Nelle belle arti (Olafur Eliasson, Gordon Matta-Clark), nella musica (Steve Reich, John Cage), e nei film (Mike Figgis, Christopher Nolan), uno intravede dei concetti d'architettura che, quando sono in mostra possono rivelare agli architetti, degli aspetti della loro disciplina che di solito sono trascurati durante la progettazione di un edificio. Come tali, le mostre possono a loro volta produrre contenuto, piuttosto che solamente trasmetterlo. Così come le altre dimensioni artistiche citate sono in grado di esprimere concetti d'architettura in modi non direttamente disponibili all'interno dei confini tradizionali della professione, l'appello per una disciplina del "fare mostre" separata dall'architettura è fatto precisamente per evidenziare la possibilità di una disciplina in grado di generare nuove architetture, piuttosto che una che sia solo rappresentativa. L'architettura espositiva, nel suo tentativo di creare un'esperienza spaziale per i contenuti architettonici genera a sua volta delle forme architettoniche.
Carson Chan, critico di architettura e curatore, risiede a Berlino