Questo articolo è stato pubblicato in origine sull’allegato di Domus 1039, ottobre 2019
Di recente, con forte sostegno di video diffusi via Internet e comunicati stampa, lo studio d’architettura UNStudio di Amsterdam ha reso pubblico un progetto piuttosto inconsueto. In effetti non riguarda la realizzazione di un edificio o di una parte di città, ma l’elaborazione di una nuova vernice destinata alle facciate metalliche, astutamente battezzata The Coolest White (“Il bianco più cool”). Messa a punto in collaborazione con l’azienda svizzera Monopol Colors, oltre a essere molto resistente all’abrasione questa vernice più bianca del bianco è destinata a ridurre il riscaldamento delle pareti aumentando la riflessione dei raggi solari.
Il progetto è ambizioso, nella misura in cui l’applicazione di questa vernice su moltissimi immobili sarebbe in grado, secondo UNStudio, di attenuare l’effetto isola di calore. Di conseguenza, il consumo energetico legato alla climatizzazione di una determinata città potrebbe essere significativamente ridotto e l’ambiente ne sarebbe protetto. In altre parole, The Coolest White potrebbe essere, sempre secondo lo studio olandese, una delle chiavi dell’urbanistica verde, tanto che UNStudio ha già in portfolio un progetto per la sua applicazione in una grande città del Sudest asiatico.
Un’operazione di sdoganamento
Con questo progetto UNStudio si presenta come fornitore di servizi completi e non più come un semplice attore sulla scena dell’architettura e del design. Il suo obiettivo esplicito è lo sviluppo di nuove tecnologie in grado di risolvere i principali problemi generati dall’espansione urbana. Questo discorso dai toni progressisti ricorda quello di certi esponenti del Modernismo del secolo scorso, e pone vari problemi. La promozione di questa “vernice rivoluzionaria” è quindi tipica della retorica contemporanea sull’innovazione che il più delle volte si guarda bene dal citare le soluzioni esistenti o alternative. In questo senso, dipingere di bianco gli edifici per limitarne il riscaldamento è una pratica ancestrale delle regioni meridionali e ci si può ben chiedere in quale misura The Coolest White riduca l’assorbimento dell’irradiazione solare meglio di quanto non faccia, per esempio, la pittura a calce.
Un edificio di grande altezza costruito in vetro e acciaio, sia pure verniciato di bianco, è davvero ecologico dal punto di vista dell’energia grigia che racchiude e delle ristrutturazioni urbanistiche che comporta?
Non è il caso di parlare, anziché di progresso, di un’operazione prima di tutto commerciale che mira a sostituire un prodotto industriale a metodi artigianali consolidati? D’altra parte, UNStudio non dice nulla dell’architettura che si trova sotto questa immacolata pellicola. Un edificio di grande altezza costruito in vetro e acciaio, sia pure verniciato di bianco, è davvero ecologico dal punto di vista dell’energia grigia che racchiude e delle ristrutturazioni urbanistiche che comporta? Di fatto, l’operazione di marketing lanciata da UNStudio e Monopol Colors pare aprire la strada allo sdoganamento di un modello di sviluppo che contribuisce alla crisi dell’ambiente, in particolare nelle regioni tropicali. Infine, sapendo che The Coolest White è una vernice a base di fluoropolimeri, derivati chimici del petrolio, la sua produzione su scala industriale può davvero essere considerata una soluzione per l’avvenire?
Un sogno di purezza
Il progetto di UNStudio, oltre a essere contraddistinto dalla fede – ingenua o cinica, ciascuno è libero di farsi un’opinione – nel progresso tecnologico e nello sviluppo economico, si ricollega anche a un potente pregiudizio culturale che merita d’essere sottolineato. Immaginare una città interamente dipinta di bianco, in realtà, rinvia a un pensiero utopistico che affonda le radici nel periodo neoclassico. Ricordiamo che, a partire dal Rinascimento, gli architetti, così come gli scultori, antepongono la forma al colore e che, a partire dal XIX secolo, in seguito ai lavori dell’archeologo Johann Winckelmann, il bianco s’impone come il bello per eccellenza.
I riferimenti, per la maggior parte degli architetti europei e americani di ritorno dal Grand Tour, sono l’antichità romana e soprattutto greca, incarnata nell’acropoli di Atene e nel Partenone, costruito con il marmo pario, di leggendaria bianchezza. Va qui notato che questo gusto del bianco si fonda interamente su un malinteso, dato che tanto la statuaria quanto gli edifici in questione, prima d’essere dilavati dalle intemperie quando non da indelicati restauratori, erano in realtà policromi. In ogni caso, per gli architetti modernisti di ieri come per quelli di oggi, la bianchezza è venuta a simboleggiare la razionalità, la purezza e la superiorità della civiltà occidentale, mentre l’Oriente complicato e arcaico era da parte sua tutto colore e decorazione. Abbastanza logicamente, quindi, nell’immaginario coloniale del XX secolo, l’architettura bianca si è venuta così affermando attraverso i continenti come quella concepita da bianchi per bianchi. Curiosamente, d’altra parte, il convegno intitolato “The Whiteness of American Architecture”, recentemente svoltosi all’Università di Buffalo negli Stati Uniti, non pare avere approfondito questo tema in tutto il suo senso letterale.
In ogni caso, quando oggi UNStudio parla di costruire in Asia una città interamente dipinta con The Coolest White, lo studio olandese che rivendica il proprio carattere d’avanguardia si riallaccia a una posizione che si rivela etnocentrica e singolarmente fuori squadra.
Cromofobia
Ovviamente queste considerazioni vanno al di là dei meccanismi della commercializzazione di una nuova vernice e riguardano più generalmente la propensione di numerosi architetti a concepire oggi edifici d’immacolata bianchezza. Da questo punto di vista pare essersi richiusa una parentesi della storia.
In effetti, la salutare critica dell’astrazione e del carattere elitario del Movimento moderno è passata negli anni Settanta e Ottanta per una riabilitazione del simbolismo e della decorazione, ma anche della policromia. Così negli Stati Uniti gli architetti Whites (Eisenman, Gwathmey, Meier e altri) si sono contrapposti ai Grays (Moore, Venturi, Stern e altri) che rivendicavano soprattutto l’uso di colori vivaci come mezzo per riallacciare il contatto con il grande pubblico.
In passato, numerosi architetti postmoderni si sono di fatto nutriti della vitalità, della fantasia e perfino forse della sporcizia delle costruzioni popolari e commerciali per rigenerare una high culture che ritenevano completamente sterile. Oggi è inevitabile constatare che l’architettura è ridiventata molto seria, talvolta noiosa. Le riviste di tendenza, così come i siti Internet specializzati, brulicano di realizzazioni fondate su composizioni volumetriche molto nitide e molto pulite, il cui biancore esplode sotto un sole cocente. Cose decisamente eleganti, ma questi edifici minimalisti rispecchiano la diversità e la ricchezza cromatica e quindi culturale delle metropoli contemporanee?
Pare, al contrario, che testimonino la preoccupazione di distinguersi coltivata da vari architetti che appaiono meno pronti che mai a confondere le loro realizzazioni con le costruzioni ordinarie.
Valéry Didelon è critico e storico dell’architettura. È professore alla École nationale supérieure d’architecture di Paris-Malaquais, dove insegna Design e teoria.