Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Domus 1060, settembre 2021.
A casa di Pedro Cabrita Reis
La casa dell'artista portoghese nella periferia orientale di Lisbona unisce galleria espositiva, atelier e abitazione. La collezione di CD jazz è nella biblioteca e in soggiorno c'è una serie di animali in ceramica.
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- Carlos D’Ercole
- 20 settembre 2021
“All’inizio degli anni Novanta, quando ho cominciato a viaggiare, ricevevo inviti a trasferirmi a Berlino, Londra, New York. Ho sempre preferito restare a Lisbona, dove sono nato e cresciuto. La cosa più importante non è trasferirsi, ma avere la possibilità di muoversi. È il percorso, il viaggio, quello che conta per un artista. La curiosità, la vocazione nomadica. Non bisogna dimenticare che la parte migliore è il ritorno: è solo in quel momento che sei capace di misurare quello che hai fatto”. Pedro Cabrita Reis mi accoglie nella sua casa nel quartiere di Marvila, alla periferia est di Lisbona, sede di fabbriche e industrie negli anni Quaranta e Cinquanta che, dopo un periodo di abbandono negli anni Ottanta, ha avuto una felice rinascita. “Nel 2006 qui c’era solo un magazzino. Al pianterreno ho sistemato la galleria dove espongo le mie opere, al primo piano il mio atelier (non uso la parola ‘studio’), al secondo la casa. Sono vicinissimo al fiume e, passato il ponte, sono già fuori Lisbona se voglio andare nel mio buen retiro in campagna”. Nella sua biblioteca (“scriptorium è il termine che preferisco”),
Cabrita mi porge un bicchiere di bianco e un sigaro: “Fumo solo cubani, Partagas, Montecristo o H. Upmann. Sono sigari classici, semplici, forti. Mai Cohiba”.
Mi cade l’occhio sulla sua collezione di cd: “Sono un fan del jazz. Non del rock. Ci sono stati tempi in cui ascoltavo solo Coltrane, Ornette Coleman, Miles Davis, Archie Shepp. Adesso preferisco la musica classica e l’opera. Ti confesso anche una passione per Roberto Murolo. Quando lavoro però, non metto mai la musica”.
Chiedo a Cabrita se è lettore compulsivo di Saramago: “No, la sua vena sentimentale, onirica, quasi sudamericana non è nelle mie corde. Preferisco di gran lunga António Lobo Antunes, fortissimo, violento, mentale. In questo periodo, mi diletto con i diari di Delacroix e torno sempre alla poesia”.
Il salotto di Cabrita è un trionfo di animali di ceramica: due galli, un serpente, una testa di cinghiale, una cicogna, una lucertola, una tartaruga. “Sono opere di un artista del XIX secolo. Si chiama Rafael Bordalo Pinheiro”.
L’amore per il design è testimoniato dalle sedie di Joe Colombo e Charles Eames, dalle poltrone di Dieter Rams e di Hans J. Wegner (“lo adoro: semplice, industriale”).
Su un tavolo di metallo troneggia, sotto a un vecchio campionario di chiodi, un libro sull’architettura degli alberi. Noto una scacchiera.
“È quella di mio padre con cui giocavo da bambino. Era un uomo silenzioso, di poche parole. Gli scacchi erano il nostro modo di dialogare”.
Mi incuriosisce un vecchio libro aperto su un comodino: “Quello che vedi raffigurato è Enrico VIII. Il libro risale agli anni Trenta, è una specie di storia mondiale dell’arte, che custodisco con gelosia. Nel Portogallo chiuso di Salazar era difficile avere accesso all’arte. Non a caso, i miei primi esperimenti da pittore all’età di 12-13 anni sono imitazioni di Dalí e Van Gogh, di facile accesso per il pubblico. Fin da piccolo, però, ho desiderato diventare artista.
Molti artisti hanno scoperto la loro vocazione tardi, dopo essere stati ingegneri, avvocati medici, pompieri, poliziotti. Non è il mio caso”. Ride con spavalderia Cabrita, forte delle sue convinzioni.
Non abbiamo parlato di cinema. Un capolavoro che mi ha sempre illuminato è Andrej Rublev di Tarkovskij. Il film segue il percorso di un pittore di icone, una storia che echeggia i miti su Giotto. Rublev viaggia, si ubriaca, fa a botte, fa l’amore con una donna che incontra, si impaurisce, piange in solitudine, mangia. Lo si vede fare tutto fuorché dipingere. Perché, come dicevo all’inizio, è il percorso a formare la dimensione interiore da cui maturerà la sua pittura”. In una vecchia dichiarazione, Cabrita sosteneva di andare nei musei solo per Tintoretto e Velazquez e di essere disinteressato all’arte contemporanea: “La verità è che per me non ci sono gerarchie. È forse migliore Picasso di Caravaggio perché arriva qualche secolo dopo? No, sono tutti artisti straordinari indipendentemente dall’epoca. Come lo sono Cimabue, Raffaello, Barceló, Pistoletto. Mi definisco un artista classico, sono contemporaneo solo nel senso che sono vivente”. Provoco Cabrita sulla saudade che, secondo alcuni, permea le sue opere: “Nulla di più falso. La nostalgia intesa come sensazione di una perdita non mi appartiene. Semmai per me conta la memoria, intesa come ricerca della conoscenza”. È tempo di salutarci. Nel congedarmi ripenso a un passo dei suoi Diari, mai pubblicati: “La sensazione all’arrivo è bellissima. La sensazione alla partenza è bellissima. Lisbona è sempre magnifica”..
La cosa più importante non è trasferirsi, ma avere la possibilità di muoversi. È il percorso, il viaggio, quello che conta per un artista. La curiosità, la vocazione nomadica. Non bisogna dimenticare che la parte migliore è il ritorno: è solo in quel momento che sei capace di misurare quello che hai fatto.
- Pedro Cabrita Reis nella sua biblioteca.
Foto João Ferrand
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