Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1046, maggio 2020. Risale al 1946 il debutto di Jean Prouvé sulle pagine della Domus che Ernesto Nathan Rogers aveva sottotitolato La casa dell’uomo (Domus 210, giugno 1946). Era un’abitazione per l’uomo qualunque quella proposta dal “grande lattoniere”, al cui talento negli stessi anni si era rivolto Le Corbusier per gl’interni delle cellule dell’Unité d’habitation di Marsiglia. Nell’Italia appena uscita dalla guerra suscitava interesse la ricerca sulla prefabbricazione della casa che Prouvé aveva impostato a partire dalla definizione della struttura metallica: interessato alla leggerezza, smontava la retorica formale dell’architettura anteponendole l’agilità della tecnica come strumento per soddisfarne la vocazione sociale, su una base pragmatica e ideale al tempo stesso. Se la riduzione dell’architettura al montaggio (che uno dei suoi allievi, Renzo Piano, definirà come il metodo del “pezzo per pezzo”) sembrava restringerla all’ambito della carpenteria, la vocazione della sua ricerca – schiva e non pretenziosa – nasceva, invece, dalla tradizione dell’Illuminismo francese, così icasticamente espressa dalla celebre immagine de L’abri du pauvre di Claude-Nicolas Ledoux.
Dall’archivio: i progetti di Jean Prouvé per le case prefabbricate
Fulvio Irace ricorda come dell’indagine che Prouvé ha condotto per tutta la vita sulla “architettura del montaggio” Domus abbia dato conto dagli anni Quaranta agli anni Settanta. Da Domus 1046.
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- Fulvio Irace
- 07 maggio 2020
Archivio Domus
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Gli schemi che accompagnano le immagini della casa pubblicata su Domus – una struttura scheletrica composta dall’associazione diretta di pilastri e tetto – esprimono la stessa poetica essenzialità evocata dalla rappresentazione di Ledoux. L’albero fronzuto che fa da protezione all’uomo, nudo sotto lo sguardo degli dei, diventa in Prouvé il pilone metallico a sostegno della copertura, così che la construction portante s’identifica tout court con la costruction couvrante. È l’idea dello shelter che accomuna Prouvé alle sperimentazioni americane di Richard Buckminster Fuller e, in parte, all’ossessione di Ludwig Mies van der Rohe per il sintagma del tetto. Mentre però Mies monumentalizza lo schema pilastro-tetto, Prouvé lo democratizza, rendendolo parte di una prassi quotidiana. Abbassa il tono per estenderne la portata a tutti: il cantiere di montaggio è il campo di verifica della possibile applicazione di massa. Fuller è altrettanto democratico nella proposta del suo rifugio fai-da-te che, non a caso, verrà adottato negli anni Sessanta da nomadiche generazioni di hippy alla ricerca del paradiso privato.
Prouvé crede però nell’esattezza dell’ingegneria: non tanto di quella dei calcoli, quanto di quella dell’intuizione statica e della conoscenza dei materiali: nel suo caso, la ‘latta’. Sei anni dopo, sul numero 251 (1950), Domus ritorna sul tema, pubblicando la Maison Prouvé (con Henri Prouvé) presentata a Parigi al Salon des arts ménagers e ne sintetizza le caratteristiche: tempo di costruzione, cinque giorni; peso, due tonnellate e 800 kg; superficie abitabile, 64 mq; due camere e un soggiorno con giardino d’inverno, cucina e bagno in un blocco prefabbricato; arredamento su misura). Precisa però che, benché sia costruita con elementi standard, non si tratta di una casa di serie, perché i singoli componenti possono essere disposti in maniera da realizzare diversi tipi di abitazione. Anche in questo caso, viene dato grande risalto al diagramma delle fasi di montaggio: uno schema quasi militare o un tutorial analogico dove ogni ‘vignetta’ descrive una fase e un atto costruttivo. Il gesto fondativo – la posa della prima pietra – è il portale montato sulla piattaforma di base. Il portale è la chiave di volta, ha la sacralità del focolare domestico descritto da Gottfried Semper come uno dei “quattro elementi” dell’architettura, declinato da Prouvé nella sottigliezza del profilato industriale.
Dovranno passare quasi due decenni perché su Domus (452, luglio 1967) si riaffacci Prouvé: questa volta con il progetto di una dimora di campagna in Olanda che, a sua volta, riprende il più noto esperimento della casa sahariana del 1958. L’idea è basica ed efficace: un tetto in lamiera d’alluminio sostenuto da una struttura leggera definita un “ombrello parasole”.
È il trionfo del tetto come elemento che definisce lo spazio che protegge. Nella parte sottostante si trova l’abitazione costituita da tre ‘cabine’ (una per il soggiorno e la sala da pranzo; una per la cucina; l’ultima per le camere da letto e i relativi servizi). Le cabine sono disposte in modo da generare uno spazio protetto di connessione che funziona come una piazza o un patio ombreggiato.
È la “casa come villaggio”: una tenda rigida che concentra l’essenza dello spazio domestico, senza fronzoli, ma con tutti i comfort. È l’incipit di una strada che, ancora una volta, sarà intrapresa da Piano nella sua offerta di “casa evolutiva”, realizzata nel 1978 a Bastia Umbria e poi replicata in altre situazioni.
Immagine di apertura: struttura per una scuola smontabile
a Villejuif, Parigi (1957).
Fulvio Irace è professore ordinario di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano. Opinionista d’architettura per Il Sole 24 Ore, è autore di monografie sui protagonisti dell’architettura italiana del XX secolo e ha curato diverse mostre, tra cui la recente “Gio Ponti. Amare l’Architettura” al MAXXI di Roma.