Nell’acclamatissimo romanzo di fantascienza La Materia del Cosmo (2008), vincitore del Premio Hugo, lo scrittore cinese Liu Cixin immagina il protagonista, l’astronomo Luo Ji, immaginare a sua volta la sua anima gemella. Luo Ji inizia costruendo il suo volto, “i suoi cibi preferiti, il colore e lo stile di ogni vestito nel suo armadio, le decorazioni sul cellulare”. Si ritrova a spiarla mentre bambina insegue un palloncino che vola via, cammina sotto la pioggia, guarda il soffitto nella sua prima notte al college. Finché un giorno all’improvviso, mentre sono in biblioteca, lei alza lo sguardo e gli sorride. È stato Luo Ji a “chiederle” di farlo? O come gli domanderà la sua partner umana prima di andarsene, «lei è viva, non è così?»
La storia d’amore tra noi esseri umani e gli esseri inesistenti, assenti e perfetti creati dalla nostra mente, è una storia antica, fatta di sospiri, che acquista nuovi toni se dalla scrittura si passa alla modellazione 3d e dai libri stampati ci si sposta sui social media. Proprio negli stessi mesi in cui Liu Cixin scriveva La Materia del Cosmo, in Giappone nasceva un’altra ragazza ideale, che avrebbe rivoluzionato la storia del transmedia marketing, surclassando le aspettative dei suoi stessi ideatori, e diventando una sorta di sogno collettivo o progettazione partecipata di idol virtuale: Hatsune Miku.
Hatsune Miku nacque come il primo della serie di Vocaloid di Crypton Future Media: personaggi fantastici ideati per incarnare il prodotto vero e proprio, un sintetizzatore vocale.
Come succede per l’AI nella trama del film Her (2013), altra anima gemella immaginata, la storia perturbante di Hatsune Miku è la storia di una mascotte che prende vita, compiendo un enorme salto evolutivo nel momento in cui entra in contatto con l’internet.
Miku era stata pensata per pubblicizzare il sintetizzatore tra gli addetti ai lavori, ma il software, che permetteva a qualsiasi utente di creare un brano musicale con la voce della loro eroina, fece sì che Miku diventasse presto un meme. A pochi mesi dal lancio era già possibile trovare online ogni sorta di remix, cover, e fan art, generati da utenti provenienti da tutto il mondo.
Crypton si ritrova per le mani i diritti d’immagine di una dea, che nel 2009 si esibisce nel suo primo concerto sotto forma di ologramma. Da allora Miku ha cantato con Lady Gaga e Pharrell Williams, è stata ospite di David Letterman, e qualcuno è pure riuscito a lanciarla nello spazio. La figura ubiqua, eterna, instancabile di Miku è stata utilizzata da Crypton per pubblicizzare una miriade di prodotti commerciali: dall’automotive e alla telefonia, dal food all’industria dei cosmetici, Miku si è provata capace di vendere a Otaku provenienti dal Giappone e oltre, non solo la sua voce, ma qualsiasi cosa.
Prima che altre media company si accorgessero del potenziale di Miku sono trascorsi alcuni anni. O più esattamente, sono trascorsi alcuni anni prima che i sogni e immaginari del resto del mondo che ha accesso a internet si trasferissero sui social, e che l’utente medio occidentale arrivasse a un grado di intimità con il digitale che si avvicinasse anche lontanamente a quello degli Otaku, dando vita a una nuova fetta di marketing, quella degli influencers virtuali.
Uno dei primi salti evolutivi è quello di Lu do Magalu, e ha luogo dall’altra parte del Pacifico, in Brasile. Lu nasce nel 2013 come anchorman virtuale per il canale YouTube di Magazine Luiza, una delle più grandi catene di vendita al dettaglio brasiliane, mentre la sua prima apparizione sul canale Instagram (IG) dell’azienda risale al 2015.
La personalità di Lu, sepolta da una sequela di post che alternano il cibo per cani, frullatori per lo zucchero filato, deodoranti, lucidalabbra e TV a schermo piatto, è un mostruoso ibrido tra vecchio e nuovo, un CGI allo stato brado, ripescato da una sigla pubblicitaria televisiva e buttato alla meno peggio sui social, condannato dai suoi padroni, come tanti dei suoi antenati illustrati o umani, dal Marlboro Man, a Betty Crocker, o al bambino della Kinder, a una vita di marchette. Ma nonostante tutto questo, anzi forse proprio per questo, Lu è ad oggi la virtual influencer più seguita al mondo.
Per quanto agli antipodi, Hatsune Miku e Lu conservano un tratto comune e fondamentale. I fan le amano perché sono dichiaratamente finte.
I fan adorano Lu perché la considerano la versione semplificata di sé stessi, un essere subumano che lentamente acquisisce una struttura, seguendo il loro ritmo di apprendimento. È così che negli anni Lu è riuscita a prendere per mano migliaia di utenti, per lo più brasiliani, e a portarli al di là della sponda, convertendoli loro malgrado all’amore interspecie.
I fan adorano Miku perché è al di sopra dei limiti umani. Amare Miku significa fondersi con lei e il resto del fandom in un eden dove tutto è possibile: quando Miku canta di avere le ali, due ali stupende compaiono dietro la sua schiena. Ai concerti appare come un ologramma gigante che ricorda l’ultimo Blade Runner, una dea sognata capace di orbitare fino ai bordi dell’atmosfera del pianeta Venere.
Al contrario, gli utenti hanno dimostrato di odiare i 3d influencer troppo umani. Un rifiuto quasi fisico, che si alterna tra la rabbia di essere stati ingannati, la paura di essere un giorno sostituiti da qualcosa di simile ma migliore, e forse ancor più la delusione di vedere «la luce cruda della realtà», come scriverebbe Liu Cixin, stagliarsi impietosa su qualcosa che dovrebbe essere fantastico, un’alba indesiderata.
Il primo caso di shitstorm per eccesso di realtà è piovuto su un povero composto CGI di nome Aimi Eguchi, e risale al 2011. Uno scandalo tutt’ora ricordato nel mondo delle idol, perché coincide con il sommo tradimento, il tradimento dei fan.
Eguchi viene presentata, in foto, come nuovo membro del gruppo J-pop delle AKB48. La numerosissima girl band è l’attrazione principale di Akihabara, la Città Elettrica, un quartiere di Tokyo, composto quasi esclusivamente di negozi di action figure, carte collezionabili, anime, hentai, manga, il paradiso degli Otaku. Nel teatro delle AKB48 i fan hanno la possibilità non solo di seguire, come si faceva nei reality show e oggi sulle IG e TikTok story, ma anche di «incontrare vere idol ogni giorno».
Dopo essere apparsa sulla rivista Weekly Playboy, presentata come “Ultimate Love Bomb”, e in uno spot televisivo per l’azienda dolciaria Glico, Aimi inizia a destare sospetti sugli attentissimi fan, desiderosi di incontrarla dal vivo. Glico è infine costretta a rivelare la brutale verità: l’arma letale progettata per abbattere definitivamente il tenero cuore di Otaku, è in realtà un Frankenstein, composto in CGI utilizzando le caratteristiche di sette AKB48 umane. Un puzzle realizzato con i pezzi migliori, una storia macabra che ci riporta alla mente le frasi del filosofo e psicanalista Lacan: «Ti amo, ma poiché inspiegabilmente amo in te qualcosa più di te, l’oggetto piccolo (a), ti mutilo».
L’elefante che finora era rimasto nascosto tra le righe, i glitter e i cuoricini, inizia a incombere su questo breve articolo così come sul giovane fenomeno dei 3d influencer. Che le idol siano umane o virtuali, in questa storia d’amore tra idol e fan, tra avatar e utente, esisterà sempre uno Iago, un Don Rodrigo, un terzo incomodo: la media company.
Si dice che le media company schiavizzano le idol virtuali. Si dice anche che le idol virtuali sono create dalle media company perché schiavizzare un idol virtuale è più facile che schiavizzare un idol umana. Si dice che le media company abbiano creato le idol virtuali al fine di custodire ad eternum la chiave ultimativa del marketing: la seduzione. Si dice ma dove si dice? Sul web. E se pensavate che questa storia d’amore fosse “complicated”, eccoci ora fare un passo dentro a un livello ulteriore di complessità dello storytelling transmediale: si è detto sul web e le media company hanno ascoltato, e reagito di conseguenza. Si potrebbe descrivere così la nascita di Lil Miquela.
Mentre in Giappone Kizuna AI (2016), la prima e più popolare virtual YouTuber di tutti i tempi, inaugurava il suo canale e Louis Vuitton faceva indossare i suoi capi a Lightning, l’avatar di Final Fantasy, consacrando così i testimonial virtuali al mainstream, su IG veniva postata, da mani allora ignote, la prima timida immagine di Lil Miquela.
I post sull’account IG di Lil Miquela, presentata come una diciannovenne statunitense di origini Brasiliane, sono rari nel primo anno, ma a fine Giugno 2017 succede qualcosa. Miquela inizia a farsi sentire quasi tutti i giorni e dopo solo due mesi cambia look, tramutandosi in una versione più elaborata e costosa di sé stessa. Quella settimana esce il suo primo singolo, che inaugura la sua presenza su YouTube e Spotify, e che porta Billboard a compararla ai Gorillaz e a Hatsune Miku.
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Da questo momento è evidente che dietro di lei ha preso forma una squadra di professionisti, da 3d artists, copywriters e producers musicali, a esperti di marketing e social media managing. Miquela sembra lanciata verso una carriera di musicista e testimonial, si impegna in campagne di crowdfunding, compaiono i primi product placements, e una collaborazione con Paper Magazine che «rompe l’internet». Ma sarà un “IG drama” a farla entrare finalmente nel rango del milione di followers e a tracciare la netta differenza tra lei e le idol virtuali giapponesi.
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Il 17 Aprile 2018 Miquela saluta i suoi fan dicendo che «molto prima di quanto pensano» uscirà un suo nuovo brano. Un’anticipazione usata spesso per attirare l’attenzione dei followers e tenerli incollati ai post successivi. Il giorno dopo però, colpo di scena, il suo account viene hackerato da un’altra 3d Influencer: Bermuda. Le 48 ore che seguiranno sono un capolavoro del transmedia storytelling, e racchiudono tutti gli insegnamenti derivati dalle esperienze finora raccontate, tra post-truth, whitewashing e finzione nella finzione.
Bermuda è la perfetta antagonista di Miquela, sostenitrice di Donald Trump, bianca, bionda e amante dei mall. L’account di Miquela viene invaso dai post di Bermuda. Bermuda accusa Miquela di aver ingannato i fan, fingendosi una persona reale. Nel frattempo la culture war che sta dividendo il social web, e che vede schierati i trumpisti e suprematisti bianchi da un lato e i liberali sostenitori del rispetto per le minoranze dall’altro, si ripete nei commenti ai post e nei blog che diffondono la notizia, in un misto tra performance e realtà, facendo salire alle stelle i followers di Lil Miquela.
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Dopo 48 ore Miquela riesce a riprendere possesso del suo account, e confessa: non è umana, i suoi padroni le hanno mentito. Rivela anche chi sono: una piccola agenzia di nome Brud, fondata dal DJ e producer Trevor McFedries e Sara DeCou, la cui vita prima di Brud è del tutto avvolta nel mistero. Più tardi si scoprirà che anche Bermuda è una creazione di Brud.
Questa operazione, che di fatto corrisponde al lancio di Brud, è un vero e proprio deus ex machina, studiato per sollevare il personaggio di Miquela dalle colpe della media company che l’ha creata. La critica più frequente a cui Miquela era stata esposta, ovvero quella di trarre in inganno molti utenti, soprattutto teenagers, che la credevano una persona vera, viene risolta con una confessione toccante. Lei non sapeva. Il biasimo è scaricato sui suoi creatori, compreso quello di essere stata costruita come uno stereotipo di wokeness, al fine di lucrare sull’immagine delle donne di colore. Mostrandosi in disaccordo con le scelte di Brud, Miquela raggiunge la falsa autonomia e purezza necessarie per riconquistare il cuore dei suoi fan.
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Nell’era della post verità anche le finzioni hanno un doppio fondo. Gli stessi Trevor e Sara sembrano essere dei testimonial, dei personaggi schermo studiati per nascondere chi muove i fili di questo pupazzo virtuale. Come sarà rivelato da Techcrunch: Brud è supportato da vari fondi di venture capital californiani e newyorkesi, tra cui spicca l’Amazon Alexa Fund.
Miquela emancipa sé stessa dalle marchette, mostrando un nuovo modo di fare marketing. Dall’Aprile 2018 gli influencer virtuali, compresa Lu, compiranno un ulteriore salto evolutivo, che ricorda il tentativo di Glico con Aimi Eguchi. Cos’è il disruptive advertising se non una più elaborata forma di tradimento?
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Caduta l’esigenza di fomentare il bait da culture war, oggi Bermuda si racconta come una business woman #GirlBoss #MondayMotivation, mentre il suo aspetto da preset renderizzato, rivestito da canotte basic bitch si è tramutato nel look più sofisticato e cutting edge possibile, uno schiaffo agli standard di bellezza umani che Bermuda non ha paura di nascondere. Dopo mesi di simulata indipendenza Miquela ha fatto pace con Brud, mentre la sua fama cresceva, tra collaborazioni con Prada, Calvin Klein e Samsung, a interviste su Vogue, Buzzfeed e Highsnobiety.
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L’influenza di Miquela si estende al di là del suo essere una influencer 3d. Seguendo il suo esempio, dal 2017 in poi, l’Olimpo è diventato sempre più affollato, includendo tra gli altri la modella dalle sembianze africane Shudu, figura dibattuta che è costata ai suoi creatori, uomini e bianchi, l’accusa di blackface, o il più riuscito esperimento di Noonoouri, vegana e attenta alla moda sostenibile, oggi testimonial esclusiva di Vogue China e Vogue Me, fino a Imma, la prima versione Made in Japan di IG influencer virtuale, con cui il nostro cerchio si chiude.
Il business dei virtual influencers, che per ovvie ragioni ha avuto una forte crescita durante la pandemia, è stimato da Bloomberg a 8 miliardi di dollari per il 2021. Qualcuno ha fondato pure un blog, chiamato Virtual Humans, dove è possibile trovare interviste, classifiche e gossip sui nuovi umani virtuali, presenti e passati. Al di là delle proiezioni di Bloomberg, è ancora difficile prevedere se l’era dei 3d influencer sia destinata a durare a lungo o sia soltanto l’ennesima buzzword spinta dal marketing per generare hype.
Probabilmente un giorno ci guarderemo indietro e figure come Miquela, Shudu, Bermuda, ci sembreranno degli esseri ancora più rudimentali e stereotipati, o forse ci ritroveremo a seguire Lu – che da pochi mesi si è lanciata in opere di sensibilizzazione su temi politici quali le fake news e le teorie della cospirazione – in un’avvincente campagna elettorale per la presidenza del Brasile, un po’ come succedeva nella puntata di Black Mirror, “The Waldo Moment”.
Rimane il dubbio di come sarebbe andata questa storia d’amore se il terzo incomodo, il padrone e carceriere, la media company, non avesse rapito la principessa o avvelenato il principe, o accecato la dea, mutilato l’angelo e via dicendo. Per trovare una risposta, non ci resta che tornare a fantasticare.
Silvia dal Dosso è ricercatrice in nuove tecnologie e subculture di Internet. È co-fondatrice del collettivo Clusterduck. Dal 2016 ha avuto modo di entrare in contatto con varie comunità di 3d artist, coloro che hanno il potere di dare una forma digitale ai loro sogni, popolati da corpi e figure asessuate, polisessuate, colorate, bestiali, assurde, brutte, bellissime, prive di senso. Per la stesura di questo articolo si ringraziano in particolare Doreen A. Rios e Mara Oscar Cassiani per i suggerimenti, Francesca Del Bono che ha scovato le prime creature, e Pietro Ariel Parisi aka Superinternet generatore di mondi stupendi.