La grande mostra sugli orsetti di peluche a Parigi

Una mostra al Museo di Arti Decorative racconta l’evoluzione del più noto giocattolo transizionale, tra glorie del passato e ombre del presente. 

Che sia la convivenza tra l’uomo e l’orso nelle caverne della preistoria ad aver ispirato il rapporto fusionale tra i bambini e il loro giocattolo da compagnia preferito, l’orsacchiotto? È una delle idee con cui si apre la mostra Mon ours en peluche, a cura di Anne Monier Vanryb con Marie-Lou Canovas, al Museo delle Arti Decorative (MAD) di Parigi.

Superati gli albori della civilizzazione, scopriamo però che la nascita del fenomeno-peluche è decisamente recente se confrontata alla lunghissima e documentata storia dei giocattoli per l’infanzia. E che, inoltre, è una storia che si presta all’aneddotica. 

Musée des Arts décoratifs, Mon ours en peluche © Les Arts Décoratifs, Christophe Dellière⁠

Prodotti a partire dal 1902 in Germania sotto il marchio Steiff, gli orsacchiotti diventeranno oggetto di culto anche negli Stati Uniti a seguito di un fatto di cronaca dal grande impatto mediatico. Sempre nel 1902, durante una battuta di caccia, il Presidente Theodore Roosevelt risparmia un esemplare di orso bruno della Louisiana. Il gesto si trasforma in leggenda, ispirando anche su questa sponda dell’Atlantico la creazione di giocattoli in maglia a forma di orso – per l’appunto il teddy bear, dove teddy è diminutivo di Theodore.

Simbolo di un animale minacciato, tanto dal riscaldamento climatico che da un’umanità che vi si rapporta in maniera antagonistica, l’orsetto è anche parzialmente adombrato dal primato dello schermo, oramai una consuetudine nella quotidianità dei piccolissimi.
Il packaging della fragranza This is not a Moschino toy. Courtesy Moschino

Nel corso del Novecento, la diffusione dell’orso di peluche sarà inarrestabile, incoraggiata anche dall’introduzione di nuovi materiali plastici capaci di riprodurre un’inedita morbidezza al contatto con il corpo. Mentre Donald Woods Winnicott sdoganerà il ruolo dell’orsetto nelle dinamiche dell’infanzia con la divulgazione del concetto di oggetto transizionale, quel gioco che permette al bambino di sviluppare il proprio sé mediando tra il mondo e la propria realtà interiore, la produzione di peluche si allargherà a dismisura, trasformandosi in un emblema del consumismo che investe anche i primissimi anni di età. 

Oggi, ci raccontano le curatrici, il ruolo dell’orsetto di peluche sembra essere parzialmente scalfito dalle vicissitudini di una società in mutamento. Simbolo di un animale minacciato, tanto dal riscaldamento climatico che da un’umanità che vi si rapporta in maniera antagonistica, l’orsetto è anche parzialmente adombrato dal primato dello schermo, oramai una consuetudine nella quotidianità dei piccolissimi.

Michael Bond, A bear called Paddington

Ciò non toglie che, come racconta la mostra, la produzione di orsi di peluche sappia mantenersi fertile anche per le ricadute sulle altre industrie creative, come testimoniano il cappotto con collo di peluche di Moschino o le opere di artisti come Charlemagne Palestine con il suo Boudouir Peluchoir, o più recentemente come Ulala Imai e Mike Kelley. Suggerendo che possano essere anche gli adulti, forse più fragili o quanto meno incantati dal mondo dei bambini, a riappropriarsi di questo emblema di tenerezza e buonumore.

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