Per tutti coloro che ne hanno seguito le gesta negli ultimi vent’anni è sufficiente leggere il nome della “art band” viennese Gelitin per rievocare una serie d’immagini, situazioni buffe, eccentriche, talvolta scandalose eppur sempre distinguibili nel flusso ininterrotto dell’art world. Per tutti i neofiti, il collettivo austriaco Gelitin è un gruppo di quattro artisti quarantenni diventati noti per le loro opere ed eventi partecipati, che hanno descritto fin dal 1993 (anno della formazione del gruppo) un proprio approccio autonomo e identitario in quella tradizione artistica tipica degli anni Novanta che il critico Nicolas Bourriaud definì come estetica relazionale, conquistando velocemente critica e pubblico delle più importanti istituzioni e biennali dell’arte contemporanea.
Slight Agitation 3/4: i Gelitin alla Fondazione Prada
Nei grandi spazi della Fondazione Prada di Milano, il penultimo capitolo del progetto curatoriale “Slight Agitation” vede la presenza dirompente del collettivo austriaco Gelitin. Fra architetture inutili, monumenti anarchici e il corpo: sempre lì a riscrivere imprevedibilmente spazi e situazioni.
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- Riccardo Conti
- 24 ottobre 2017
- Milano
Come terzo e penultimo capitolo del progetto espositivo ideato dal Thought Council della Fondazione Prada (i curatori Shumon Basar, Cédric Libert, Elvira Dyangani Ose e Dieter Roelstraete), “Slight Agitation” propone nuovamente un intervento site-specific concepito per gli ampi spazi della Cisterna del distretto artistico milanese. Dopo le opere di Tobias Putrih e Pamela Rosenkranz, ecco il progetto elaborato dai Gelitin dal titolo Pokalypsea-Apokalypse-Okalypseap e composto da tre imponenti sculture situate in tre ambienti.
Il titolo, già di per sé evocativo, ci suggerisce l’identità e la densità del progetto; fatto d’incastri, decostruzioni e ricombinazioni di elementi che spaziano dall’infinità di oggetti recuperati per erigere le tre sculture-installazioni, come vecchie ante di armadi, comodini e altri mobili che ci suggeriscono un immaginario domestico sostanzialmente congelato agli anni Settanta, alla plastilina policroma per realizzare la figura umana, ai blocchi di polistirolo affiancati per comporre l’eccentrico iglù-obelisco.
Un obelisco appunto, poi un arco di trionfo e infine una sorta di torre di babele-anfiteatro: i Gelitin sembrano voler rivisitare e far deflagrare la retorica delle classiche forme architettoniche pubbliche e monumentali, espressione di potere, conquista e memoria storica invertendone i codici e il precipitato simbolico. Laddove i segni architettonici che accompagnano tali monumenti sono solitamente legati a una retorica di supremazia, di centralità e di protensione verso l’alto, questa mal celata metafora fallica del potere viene sabotata dai Gelitin che vi contrappongono invece le loro installazioni anarchiche, aperte e collettive costellate da segni umoristici ed evanescenti, che sempre alludono alla centralità del corpo come unico possibile strumento anarchico.
Il corpo dei Gelitin è proprio il loro, come principio di tutta la loro poetica: da quando il gruppo appena ventenne si costituì, i loro corpi erano quelli di ragazzi in un campo estivo. Evasione, complicità, quell’estetica ormai scomparsa di una generazione giovane europea che viaggiava in camper o roulotte per raggiungere laghi e montagne dove allestire insediamenti effimeri, della durata di un’estate e dove combinare esperienze regressive ma autentiche. Ecco che in quelle comunità teatrali improvvisate, il gruppo ha assunto la fisicità e la sua espressione nelle sue qualità più dissacranti e incontenibili.
La centralità del corpo, si diceva, è qui ribadita dalla posizione occupata dall’Arc de Triomphe (2003-2017) nello spazio centrale della Cisterna. La figura maschile descritta dai Gelitin “alta come un elefante” è l’ennesima espressione scanzonata e ribelle di quella sostituzione simbolica che vede la parte apicale di uno dei qualsiasi archi trionfali che dominano le città del mondo, rimpiazzata qui da un corpo in tensione a creare un arco a tutto sesto (presumendo quindi una durata limitata nel tempo dell’azione) con un pene eretto dal quale zampilla armoniosamente dell’acqua come in una fontana, finendo direttamente nella bocca dell’individuo e creando così un una sorta di loop.
È del tutto evidente il gioco semantico che affratella questo anti-monumento del quartetto austriaco a episodi della storia dell’arte come il Self-Portrait as a Fountain (1966) di Bruce Nauman, alla Fontana (1917) di Duchamp: in entrambi i casi la sostituzione di un elemento statico e monumentale tipico dell’arredo urbano con un corpo o con un oggetto che sottende alla sue funzioni fisiologiche. L’urina, lo sputo creano quindi un contrasto simbolico tra acque pubbliche e fluidi privati, personali.
È un aspetto per niente secondario quello dei vari “fluidi” che spesso accompagnano le operazioni dei Gelitin, come ben descrive il curatore Dieter Roelstraete in suo saggio che accompagna la mostra: “Il mondo Gelitin è interamente composto da umori e c’è ancora qualcosa d’inesplorato e non sufficientemente teorizzato nella fascinazione formale per i fluidi che connota l’arte del gruppo, in cui la liquefazione assurge a principio scultoreo e in cui i fluidi corporei assumono una preminenza assoluta”. Non si deve tuttavia pensare all’utilizzo di saliva, sperma o urina come a presenze superficiali, grottesche e tipiche di molta arte sensational tipica degli anni Novanta, ma rimandano ancora al corpo e alle sue funzioni, presentando per altro similitudini con l’esperienza di Atelier Van Lieshout, entrambi creatori di dispositivi, di strutture utopiche e splendidamente inutili.
Progettare dispositivi. In questo, va detto, i Gelitin sono da sempre prolifici e inarrestabili creatori: persino la loro vastissima produzione “scultorea” non si definisce mai in forme concluse e compiute ma in oggetti che alludono a funzioni, azioni esattamente come corpi con le loro rispettive vite. E poi ancora altri “dispositivi” come libri d’artista e persino libri per bambini, estendendo la loro performatività al di fuori dei luoghi deputati all’arte, creando esperimenti di Land art come il grande coniglio rosa realizzato nel 2005 in Piemonte o creando spazi parassitari come il balconcino costruito con mobilio di scarto a 300 metri di altezza sul World Trade Center The B-Thing (2000).
La destabilizzazione di monumenti e spazi, il rovesciamento di senso e funzione, innesca nelle opere dei Gelitin varie forme d’improvvisazione, interazione ed esperienze simboliche. L’atto d’immaginare, concepire e solo assistere a tale destabilizzazione permette alla nostra immaginazione di testare i parametri dell’esperienza quotidiana, del vivere collettivamente e rimettere al centro la nostra anatomia nelle sue istanze più libere, indisciplinate e appunto, anarchiche.
© riproduzione riservata
- Slight Agitation 3/4: Gelitin
- 20 ottobre 2017 – 26 febbraio 2018
- Fondazione Prada, Cisterna
- largo Isarco 2, Milano