L'artista e compositore Christian Marclay è un solerte catalogatore di cultura (alta e bassa); e, come la maggior parte dei postmoderni praticanti del collage, è alquanto iconoclasta. Che la sua tecnica di appropriazione di materiali trouvés risalga a Duchamp è forse meno significativo della costante prolificità che la contraddistingue (con la disco, l'hip-hop, la DJ) attraverso le ondate delle innovazioni tecnologiche (battezzate decennio dopo decennio come new media) e che oggi raggiunge l'acme della popolarità grazie a Internet, che distribuisce e ridistribuisce prodotti culturali e convinzioni ostili al diritto d'autore insieme con gli strumenti necessari alla manipolazione digitale fai da te.
Oggi ovviamente non è una novità (si veda Nicolas Bourriaud, Postproduction). Ma l'opera di Marclay, nel suo percorso, rimane profetica nella sua crescente insistenza sui limiti tecnici della rappresentazione in una iperrealtà dominata da simulacri. Il suo cortometraggio Telephones (1995) costruisce un'"assurda" conversazione partendo da un montaggio di attori che rispondono al telefono in film hollywoodiani, e come è noto è stato copiato dalla Apple nel 2007 per pubblicizzare l'iPhone negli Stati Uniti. Benché Telephones presenti in modo molto semplice la tassonomia di una scena ricorrente nel cinema, la sua struttura generale si regge sul piano del suono. Una colonna sonora di suoni diegetici ed extradiegetici accuratamente dosata si snoda lungo i frequenti stacchi del film, conferendogli una coerenza ritmica da cui solo le instabili immagini sullo schermo paiono sottrarsi. Lavorando all'incrocio tra uditivo e visivo Marclay si oppone ai luoghi comuni narrativi dominanti e alla tendenza statica dell'immagine, sia pure con un'impostazione non completamente decostruzionista. (E comunque la forza concettuale del suo lavoro è ripetutamente provata dall'adattabilità a scopi indesiderati, di solito commerciali e pubblicitari.)
La redazione metodica, perfino maniacale, di Telephones viene ripresa nella mostra di Marclay attualmente aperta al White Cube Mason's Yard, che presenta per la prima volta al pubblico il più recente e più ambizioso video dell'artista. The Clock gira ventiquattr'ore su ventiquattro su un unico canale, intrecciando momenti di storia cinematografica (e televisiva) in cui vari attori discutono, consultano o rifiutano il tempo nell'arco del giorno. Un gesto banale e un trucco cinematico, usato per costruire la suspense e per articolare la dimensione alternativa dello spazio filmico, accelerato o rallentato secondo la volontà personale, indipendentemente dall'ora di Greenwich. Il video di Marclay, tuttavia, è anche un misuratore del tempo in senso letterale, sapientemente sincronizzato in modo che quando in un certo fotogramma l'orologio segna le 10:42, l'ora è la stessa anche a Londra.
E tuttavia in The Clock il tempo appare totalitariamente regolato, attraverso la felice rottura di ogni cronologia a livello del filo narrativo individuale e perfino attraverso la parodia della famosa considerazione "La vita si riduce a pochi momenti, e questo è uno di quelli" (Charlie Sheen nella versione originale di Wall Street, 1987), grazie alla negazione della possibilità del momento seguente. Come scrive Darian Lader nel catalogo della mostra, The Clock rappresenta "il tessuto di migliaia di separazioni insopportabili".
Ma il tempo passato ad assistere a The Clock non è necessariamente deprimente. Il che si deve in gran parte all'impeccabile ritmo di Marclay, che permette a brevi scene di svolgersi nella loro interezza, altre ne taglia immediatamente, altre ancora ne rivisita (la seconda occhiata all'orologio da polso) nell'arco di pochi minuti. Come archivio di immagini cinematiche The Clock rinuncia integralmente a ogni possibilità di espace quelconque alla Deleuze, rivelando la costruzione artificiale della propria spazialità; nonché la sua essenziale piattezza. Osserviamo la consultazione del tempo entrare nel film in particolari momenti di tensione o comunque topici: prima di un furto, in una sala da conferenze, alla stazione ferroviaria, durante il disinnesco di una bomba, nella camera da letto dopo il coito. È frequente il furto dell'orologio, simbolo di ricchezza e di condizione sociale elevata. All'avvicinarsi del mezzogiorno ("di fuoco") c'è una prevedibile abbondanza di spezzoni tratti da western. Ed è illuminante osservare che passano minuti in cui nessuna attrice entra nell'inquadratura; quando appare una donna è spesso al momento del risveglio.
Il video di Marclay, benché scucito, è assolutamente ipnotico. Ciò che manca in continuità narrativa lo si recupera in tensione vitale: quale "momento" farà seguito al prossimo? Finora un paio di spettatori dotati della massima resistenza sono riusciti a ingurgitare dieci misere ore (dalle 8 alle 18). Sotto molti aspetti è un gran risultato: il "problema" della videoarte dopo tutto sta nella sua capacità di attrazione. Al tipico disagio che si prova osservando l'opera per un periodo di tempo troppo lungo non si rimedia dando un'occhiata al cellulare: la rappresentazione dell'orologio proiettata sullo schermo comunica che non si è in ritardo per l'appuntamento del pomeriggio. The Clock fonde le familiari spettacolarizzazioni del cinema con la verità (una corroborante inversione della televisione dei reality) per produrre durata; e tutto nello spazio reale di un imprescindibile presente.
Il trascorrere del tempo è fonte di tensione nel cinema come nella vita, che si estende in istanti che non torneranno mai più, sempre e inevitabilmente verso la morte. Fin dagli inizi la macchina da presa è stata ossessionata dalla durata, per il fatto stesso che essa poteva finalmente essere reificata. Il fondamentale film dei fratelli Lumière La sortie de l'usine Lumière à Lyon (1895) si svolge in un singolo piano sequenza ("in tempo reale") e reca un esplicito segno del tempo: la fine della giornata di lavoro. Nella sua ascesa durante l'epoca storica della modernizzazione il cinema degli inizi documentava e spesso spettacolarizzava una società dominata dall'orologio della fabbrica. The Clock di Marclay, compilato e editato con strumenti digitali (e quindi libero dai vincoli fisici dei materiali analogici) forza il tempo a tornare su se stesso in una completa rivoluzione dell'arco del giorno: una fredda, tautologica riflessione sulla quotidianità postfordista in cui "il tempo sociale è scardinato". Kari Rittenbach
Christian Marclay. The Clock
White Cube Mason's Yard
15 ottobre – 13 novembre 2010
Christian Marclay. The Clock
Al White Cube Mason's Yard a Londra, fino al 13 novembre 2010, il più recente e più ambizioso video dell'artista gira ventiquattr'ore su ventiquattro su un unico canale.
View Article details
- Kari Rittenbach
- 10 novembre 2010
- Londra