Come trasformare un vuoto abbandonato in un pezzo di città? Questo è l’interrogativo a cui Enzo Mari si è trovato di fronte a Gela, in Sicilia, dove è stato chiamato per progettare un monumento a Dio. Testi di Stefano Boeri e Francesco Librizzi. Fotografia di Ramak Fazel. A cura di Francesca Picchi.
Quel grande rettangolo vuoto alla periferia di Gela, circondato da casette a due piani. E la chiesa sul lato corto, verso la campagna; e la ferrovia di fronte, verso la città storica. Quando piove, il rettangolo diventa un lago. Quando è secco è perfino difficile giocarci a calcio, tanto è accidentato, sterrato, rugoso. Se non fosse perimetrato da un pulviscolo di architetture abusive – quell’abusivismo abbiente, ordinato, che nasce a sorpresa in certe periferie del Sud Italia – ricorderebbe gli spazi infiniti delle borgate romane filmate da PierPaolo Pasolini; sfondo di corpi solitari, che escono e entrano dalle quinte dai caseggati popolari. Qui no. Nel rettangolo di Gela nessuno ci entra. Ci gioca. Si nasconde. Fa sesso. O commerci sporchi. Almeno fino a poco tempo fa. A rendere così sorprendentemente pragmatico il progetto di Enzo Mari è che non è un progetto. Non è il solito virtuoso e velleitario slancio di architettura. Qui siamo piuttosto di fronte ad un’ossessione contagiosa e pratica, creata dall’andirivieni di Mari. Mari gira e rigira nel rettangolo; parla, chiama, scrive editti, disegna, discute, si arrabbia, illustra idee, esamina una ad una tutte le possibilità di tutte le parti del grande rettangolo vuoto. Qui un giardino, qui un certo albero, qui un negozio, qui una panchina, qui una rampa, qui no, qui niente... E l’ossessione di Mari diventa l’ossessione di tutti. L’ossessione per quel vuoto che giorno dopo giorno si riempie di cose. Di aspettative, di promesse più o meno convincenti, di visioni da condividere, criticare, demolire. Il rettangolo oggi è già un’altra cosa. È uno spazio pubblico. Pieno di idee. Confuso, disperso, complesso, imprevedibile come dovrebbero forse essere tutti gli spazi pubblici degni di questo nome. Il progetto di architettura urbana disegnato da Mari per il rettangolo di Gela è la matrice di un progetto di riconquista di uno spazio comune, condiviso fino a poco fa con gli occhi e adesso finalmente anche con le voci, i gesti, le corse. Oggi le cose, qui nel quartiere Sette Farine di Gela, non aspettano di cambiare. Sono già cambiate. Adesso è il momento della politica. Delle scelte di governo locale. Dei piani da adottare e dei fondi da stanziare. Sempre che non sia questo, questo andirivieni di ascolti e dialoghi costruiti deambulando attorno ai luoghi, il migliore modo di fare politica oggi, in Italia. Stefano Boeri
Viaggio a Gela
Antefatto
Settembre 2001. Nagasaky, Giappone. Enzo Mari resta profondamente colpito dalla rappresentazione del Dio nei templi scintoisti. Appena dentro al tempio, uno specchio di bronzo lucido è posto in modo che il visitatore veda riflesso, con la propria immagine, l’insieme di elementi naturali di fronte l’ingresso. Dio-Immagine del tutto. Lo specchio da solo non è niente. Sensibile alla potenza artistica degli archetipi, Mari decide di fare il suo “Ritratto di Dio”. L’opera viene realizzata in un parco. Durata: un giorno.
Il fatto
Si cerca di riproporre il “ritratto di Dio” in Italia. Nasce una possibilità: a Gela, in Sicilia. Racconta il sindaco Rosario Crocetta che realizzare un momumento di questo tipo nella sua città (150 omicidi di mafia all’anno fino ai primi anni Novanta) ha un valore spirituale particolare: in questo luogo costruito sulla violenza degli uomini ci voleva un’opera che volgesse lo sguardo al cielo e che facesse pensare alla presenza di Dio anche in questo posto. “Dio ci ha abbandonati?”. No, non vi ha abbandonati. È così che San Enzo Mari si trova a calpestare il suolo di Gela e, scortato dalla delegazione degli architetti indigeni, viene portato sul luogo della deposizione. Si tratta di uno spazio rettangolare vuoto di 30.000 metri quadrati, circondato sui lati lunghi da due cortine di case ex abusive, e ai due estremi da una chiesa e dalla ferrovia. Lo spiazzo è completamente sterrato, oltre la chiesa c’è la campagna, cioè finiscono le case. Mari è folgorato. Arriva in Sicilia per scegliere una location urbana a un monumento, e si trova invece in un posto del genere: “una stanza nella città dispersa” (dirà poi il direttore di Domus). Quelle case arrangiate così, la gente in piazza senza la piazza. Lo specchio. Di fronte, la chiesa.
Il quartiere, le case, la famiglia
Nel quartiere Sette Farine, la costruzione di un insediamento spontaneo abusivo non è legata a fenomeni di povertà, come in numerose periferie urbane del pianeta. L’attività industriale di uno stabilimento petrolchimico e una ancor presente attività agricola danno a un certo punto la possibilità a un elevato numero di persone di costruirsi una casa. La prima, per alcuni. Per altri, una casa più grande per l’intera famiglia: il “fortilizio dove celebrare e tutelare l’incontro con i propri parenti”… con il sogno che quelle case possano conservare in sé tre/quattro generazioni” (Mari). Garage piastrellati a cotto e decorati con stucco veneziano sono le cucine-soggiorno-lavanderia, ambiente unico al pianterreno, tipico di ogni abitazione. In sala, sopra il quadro dipinto a mano, c’è anche il condizionatore. Questa gente vive nella casa che desiderava. Palazzine a più piani. Uno per il salotto da cerimonia (funebre, per esempio), con le serrande chiuse per non scolorire i mobili. I piani ulteriori per il resto della famiglia che lì continuerà a vivere. Ultimo piano indeterminato-potenziale, cioè pilastri sfoderati e protesi verso l’alto. Se si riuscisse a guardare tutto ciò con occhi diversi, senza vederlo solo nel codice dell’”abusivismo del sud Italia”, si riuscirebbe quasi ad apprezzare il senso anche poetico di questi pilastri-denti-dita, grandi ‘jack’ su cui innestare il futuro. Una realtà nuova potrebbe atterrare e ancorarsi a questi tetti, sovrapponendosi a quella precedente.
Una proposta alternativa
Mari ha subito due intuizioni. La prima di ordine spaziale. Il grande vuoto urbano che ha di fronte è lo strano risultato di un disaccordo sociale, per cui parte dei lotti non venduti ha formato un grande spazio continuo tra due cortine di case e il fronte della chiesa. “In una città fatta da azioni individuali, senza alcuna coscienza, quindi attenzione, verso lo spazio comune, ciò che stavolta succede di particolare è che si è formato un grande vuoto. Un luogo sospeso, interrotto. L’idea di Mari di conservare questo vuoto come prima azione, è un gesto anche utopico: trasformare un luogo che è l’esito di una situazione individualistica, in uno spazio pubblico, un luogo che è condiviso da tutti” (Domus). La seconda intuizione è di conoscere la gente del luogo. Gli incontri ripetuti con il comitato di quartiere svelano a Mari le case, le abitudini, la possibilità di guardare e leggere da vicino quella realtà. Ma non hanno il carattere di una intervista, di un censimento dei desideri locali. Ciò che realmente Mari mette in opera, nel momento in cui coinvolge direttamente gli abitanti nel progetto, è la stipulazione implicita di un patto, un accordo che individui le parti in gioco e attribuisca loro identità e struttura. Un contratto tra chi si impegna a trovare espressione a una soluzione collettiva e la comunità stessa che di quel luogo è già responsabile, e che è condizione per la realizzazione autentica del progetto. Soprattutto del suo mantenimento. La gente serve al progettista come lui serve alla gente: un’opera architettonica come fenomeno di responsabilità collettiva.
Domus a Gela
Delegazione ristretta per registrare il contatto con la realtà. Il direttore in regia, Mari il testimone, Ramak Fazel il fotografo, io proverò a fissare suggestioni e parole. Gela ha tutti i numeri per essere una trappola del luogo comune. È un famoso sito archeologico greco. È una città del Sud, esemplare per i casi di abusivismo edilizio. L’economia, il paesaggio e le tradizioni locali sono state stravolte dall’impianto di uno stabilimento petrolchimico, alle porte del centro abitato, così presente nelle coscienze, nelle tasche, negli occhi e nei polmoni di questa gente da essere diventato un’entità con un nome proprio: “il Petrolchimico”. Ci conducono al quartiere Sette Farine. Il direttore fiuta la potenza dello spazio che ci troviamo di fronte. Ci sintonizziamo sul suo canale. Quell’architettura che non c’è ci paralizza davvero tutti per qualche istante. Siamo davanti alla chiesa e sta anche avvicinandosi un corteo funebre. È davvero la scena di un film. Si guarda quel campo di argilla teso tra la città e il resto del paesaggio, con le abitazioni sdentate e i ragazzi col pallone e ci si chiede ad alta voce “se Pasolini avesse visto questo luogo…”. Mari è ormai conosciuto da tutti gli abitanti del quartiere. Giunto a Gela la prima volta da “Santo” adesso è per tutti “u Prufissuri” in carne, ossa e loden, stringe la mano e scambia qualche parola. Stiamo assistendo alla riconferma del contratto. Con la sua reiterata presenza sta dimostrando dolcemente che si può fare. E spiega che “questo signore qua è il direttore di Domus, una rivista importante che si occupa di architettura e città, e che viene letta persino in Canada e Australia e in tutto il mondo”, insomma. “Prufissuri, allora stavolta si fa veramente sto progetto…”. Cominciamo a passeggiare sul perimetro dell’enorme spianata circondata da case più o meno uguali. Edifici di due piani più bonus. Mari sottolinea che le abitazioni sono strumento della cultura dei cittadini, che forma e significato sono la stessa cosa e che tutto sommato sono più autentiche queste case delle ville stereotipate della Brianza. Sono comunque due manifestazioni di un diverso tipo di ignoranza: quella del contadino col mulo e quella delle riviste d’arredamento. Perché gli architetti ormai la visione e l’illusione del progetto l’hanno persa e si sono trasformati in vetrinisti. I più avventurosi tra i professionisti rischiano invece di percorre la strada sterile della diversità. Qual è allora l’atteggiamento di Enzo Mari come architetto? “Il mio unico strumento è che leggo la realtà”. Questi cittadini non hanno vissuto la costruzione storica delle parti di una città. Per questo una piazza, un orto botanico, racconteranno la possibilità di crescita strutturale e civica. Perché “un architetto può realizzare un segnale, non può cambiare il mondo”, può solo tentare di “trasmettere almeno una parte di ciò che si pensa sia giusto”. Mari è un artista che non ha perso il piacere di una interpretazione metaforica della città. “La democrazia ha bisogno di riferimenti simbolici, di una bandiera”. Per memoria e per istinto sente comunque che la rappresentazione degli spazi può diventare un fenomeno di identificazione sociale. Uno specchio. In questo senso lui pensa il suo progetto urbano come una proposta alternativa di monumento.
Il sindaco
Alla fine della prima giornata si riesce a organizzare un incontro con il sindaco nei locali del comitato di quartiere. Si apre un dibattito con i cittadini e altri convenuti: fin dalle prime battute è chiaro che a questo punto il sindaco ha una visione estremamente lucida della questione Mari/Sette Farine. Discorso agli abitanti: risolverà il problema dello smaltimento delle acque piovane facilmente e in breve tempo. Discorso all’amministrazione: ritiene il progetto estremamente realista e quindi abbastanza semplice da realizzare in tempi brevi. Discorso agli intellettuali e alla storia: riconosce in questo modo di operare un “fenomeno di democrazia nuova”. Questo progetto non ha costruito un prototipo che potesse servire da modello, ma ha fornito una idea di ‘sistema’ per le operazioni successive. Mari ha costretto tutti a fondare un metodo di lavoro che avesse una visione generale del quartiere e delle sue problematiche, e che riuscisse a “gestire il passaggio dalla spontaneità all’organizzazione”. Il secondo giorno il sindaco ci raggiunge in un’area del quartiere scelta come set fotografico per gli scatti con Mari. Al momento del congedo ci saluta mentre sale in macchina scortato dalle guardie del corpo. Lui al centro dell’inquadratura con lo sportello aperto. La vecchia Alfa 164 nera è targata Roma. Gorilla a dx, gorilla a sx. L’insieme sembra proprio una sagomina di cartone, una di quelle da foto al Luna Park. Lui lo sa, affaccia il volto dal finestrino ritagliato nella sagoma, e Ramak scatta la Polaroid dell’antimafia. Francesco Librizzi
L’affaire Gela
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- 05 gennaio 2006