Il linguaggio dei nuovi media come visione del mondo della società contemporanea. Partendo da questo assunto di base Lev Manovich – studioso di belle arti, architettura e informatica – sviluppa la propria analisi e racconta a Stefania Garassini quali meccanismi muovono la società dell’informazione.
Lev Manovich, russo di nascita, cittadino americano, autore di “Il linguaggio dei nuovi media”, non è certamente un trascinatore alla Negroponte, ma nemmeno un asettico scienziato a suo agio soltanto dentro un laboratorio: associa piuttosto la precisione di un entomologo alla vena artistica di un regista d’avanguardia. La sua biografia è di per sé un esempio di armonica combinazione fra tecnologia e umanesimo. Manovich, classe 1960, studia belle arti, architettura e informatica a Mosca, per poi approdare in una società di computer animation statunitense negli anni ’80. Qui comincia a porsi qualche interrogativo sulla natura dell’immagine di sintesi, ricostruita cioè totalmente all’interno del computer, un’immagine che non è traccia di alcuna realtà esistente.
Nel frattempo si specializza in scienze cognitive e arti visive fino ad aggiudicarsi la cattedra di professore associato di New media art a San Diego. Manovich è anche artista e sperimenta in prima persona le sue teorie. La sua ultima installazione “Soft Cinema” è stata presentata in novembre allo ZKM di Karlsruhe, uno dei principali centri europei di studio e produzione di arte interattiva. Il suo volume, tradotto anche in italiano dalle Edizioni Olivares, è il primo saggio sistematico su un tema, quello delle nuove tecnologie della comunicazione, sul quale si sono stratificate negli anni le teorie più diverse, dalle previsioni sullo sviluppo inarrestabile e benefico del digitale, alle teorizzazioni estreme di gruppi di artisti attivi in rete sull’impatto rivoluzionario di Internet. Cosa c’è di utile in tutto ciò per un’analisi seria del linguaggio dei new media? Per rispondere alla domanda, l’autore invita a lasciare lo sguardo d’insieme, le teorie astratte, ed esaminare invece gli elementi minimi, i particolari, “l’equivalente - si legge in apertura del volume – dell’inquadratura, della frase, o addirittura della lettera”.
“Il metodo seguito - spiega ancora Manovich - si potrebbe definire ‘materialismo digitale’, in cui la teoria dei nuovi media non è aprioristica, cioè imposta dall’alto, bensì costruita dal basso. Per scoprire qual è la nuova logica culturale, e come funziona, è utile esaminare dettagliatamente i principi su cui si basano l’hardware, il software e le operazioni che concorrono a creare prodotti culturali attraverso il computer”.
Il linguaggio dei nuovi media, come chiarisce Manovich, è importante da studiare non tanto per i suoi aspetti puramente tecnici ma perché è “il” linguaggio del nostro tempo: è la visione del mondo della società contemporanea. Così, ad esempio, quando l’autore descrive la nuova creatività digitale come “selezione da menù”, combinazione di alternative esistenti e non produzione ex novo, è facile associare all’analisi puramente tecnica una considerazione più ampia: “Che cosa indossare, come arredare un appartamento, che cosa ordinare al ristorante, come trascorrere il proprio tempo libero – scrive Manovich –: il cittadino odierno passa la vita attingendo a un’infinità di menù”. Allo stesso modo il tema centrale dell’interattività riceve un’interpretazione inedita e feconda di ricadute su altri ambiti. Quando interagisce, “l’utente sta attivando solo una parte di un lavoro che già esiste”. La sua attività non ha nulla di creativo. È un adeguamento a uno dei possibili percorsi previsti dall’autore. “Paradossalmente – scrive Manovich – seguendo un modello interattivo, la persona non si costruisce un sé unico, ma adotta invece identità prestabilite”.
È proprio questo gioco continuo di rimandi, dal particolare all’universale, dai dettagli di funzionamento dei programmi più utilizzati alle logiche di comportamento della società contemporanea, che rende affascinante e innovativo il lavoro di Manovich.
Cyber-architettura
I dettagli – secondo il metodo dell’autore – sono da ricercare nei territori di confine fra i nuovi media e le forme di comunicazione tradizionali, in particolare il cinema, ma anche l’architettura o la musica. “Trovo molto più utile concentrarmi su discipline che hanno alle spalle una tradizione di studi approfonditi sulle loro forme espressive e che oggi si avvalgono del computer come indispensabile supporto alla creatività. Spesso invece se si parte analizzando la tecnologia e l’arte tecnologica non si arriva molto lontano: si finisce per concentrarsi più sugli aspetti tecnici che sul linguaggio”, ci ha spiegato Manovich, che abbiamo incontrato a Linz nel corso del recente Festival Ars Electronica.
“In particolare sono molto interessato ai rapporti con l’architettura. Ormai praticamente tutti i principali architetti progettano con il computer. Proprio come è accaduto nel cinema e in altri campi, quello che fino a una decina di anni fa era nuovo e insolito è diventato la norma. Sarebbe impossibile sintetizzare i diversi modi in cui il computer viene utilizzato per il design, la costruzione e la presentazione dei progetti. Ma si può dire che un effetto visibile a tutti è l’adozione di forme sempre più smussate e fluide (“soft”). Quello che mi pare interessante è che ormai questo tipo di forme appaiono nei progetti di architetti di ogni generazione, anche personaggi del calibro di Zaha Hadid ed Eric Moss, che hanno già sviluppato un loro linguaggio personale. Ci sono invece architetti, come Greg Lynn, il gruppo Asymptote o UN Studio che da anni lavorano e riflettono sul ruolo del computer nella loro attività. Il discorso sull’architettura è per me di grande interesse anche perché si ricollega a un’altra tematica che sto studiando per il mio nuovo libro sull’Info-estetica (l’estetica dell’informazione) ovvero: ‘Come si può rappresentare in modo simbolico la società dell’informazione? Ci sono forme spaziali che possono efficacemente rappresentarla come le forme della Bauhaus hanno fatto per la società industriale?’
Ho intenzione di analizzare alcuni nuovi concetti di forma nella società dell’informazione: forma mutevole, forma come rappresentazione distribuita, forma come elemento emergente, forma come segnale in opposizione a rumore. Ho tratto questi concetti dall’osservazione del modo in cui i computer e le reti rappresentano, organizzano e comunicano l’informazione. Naturalmente le forme che ho descritto non possono essere costruite materialmente: restano suggestioni che ispirano gli autori più creativi, in grado di combinare architettura tradizionale e rappresentazioni basate sulla rete e sul computer”.
I grandi artefici del linguaggio multimediale, coloro che saranno in grado di dar vita a nuovi stili e di scrivere la grammatica di questa lingua, come Dante ha fatto con l’italiano o Griffith con il cinema, verranno, secondo Manovich, da ambiti collegati alle tecnologie, non direttamente da queste. “Già oggi molti degli oggetti culturali più celebrati sono stati creati grazie al computer, l’architettura di Frank Gehry, le coreografie di Merce Cunningham, la fotografia di Andreas Gursky sono solo alcuni esempi. Moltissimi artisti usano il computer come uno strumento anche se non parlano di “nuovi media” per definire il loro lavoro. Resta il fatto che senza il computer non sarebbero stati in grado di compiere le loro scoperte estetiche”.
Info-estetica
Ma quali sono gli elementi fondamentali del linguaggio del computer? Per descrivere i caratteri delle creazioni realizzate con le nuove tecnologie della comunicazione, Manovich introduce il concetto di “new media object” (oggetto mediale), all’interno del quale ricadono le interfacce uomo-computer, ma anche i videogiochi o i mondi virtuali tridimensionali.
“Ormai le interfacce che usiamo per il divertimento coincidono con quelle per il lavoro e viceversa. La società industriale era caratterizzata da una netta separazione fra lavoro e divertimento. Per il lavoro avevi un certo tipo di interfaccia, poi andavi al cinema o ti dedicavi a un’altra attività ludica e ne avevi un altro. Nella società dell’informazione non è più così. Un esempio sono i web browsers, i programmi per la navigazione in rete: hai la stessa interfaccia per lavorare, giocare, ascoltare musica e altro”. L’analisi delle interfacce e delle ragioni per cui sono realizzate in un certo modo può dunque portare a comprendere alcuni meccanismi profondi propri del nostro rapporto con la realtà. “Pensiamo ad esempio all’interfaccia del sistema operativo OS 10, l’ultimo realizzato da Apple: le icone si attivano al semplice passaggio del cursore, le finestre si aprono con una piccola danza, e vi sono molti altri effetti di questo tipo.
Questa interfaccia non è puramente funzionale come lo era quella del primo computer Apple Macintosh, uscito nel 1984, minimalista, pulita, al puro servizio delle informazioni. In questo caso invece prevale il piacere dell’utilizzo, le varie funzioni tengono presente la sensibilità dell’utente e cercano di assecondarla. Oggi c’è maggiore attenzione agli aspetti estetici. Potremmo dire che avere accesso a un computer diventa un atto puramente estetico. Questa tendenza è dimostrata anche dall’attenzione sempre più accentuata alle forme sinuose, antropomorfiche nella progettazione di computer e di altri strumenti informatici o di elettrodomestici. L’obiettivo è suscitare negli utenti una risposta emozionale paragonabile a quella che si avrebbe di fronte a un’opera d’arte o nel rapporto con una persona. Ho introdotto il termine ‘info-estetica’ proprio in riferimento a questa relazione sempre più stretta fra l’informazione - e le interfacce per accedervi – e l’elemento formale. Credo che si tratti di una delle istanze chiave della nostra cultura”.
Se dunque i dati con cui avremo a che fare tenderanno ad avere una forma sempre più elegante, anche il tema dell’usabilità, ovvero dell’accessibilità e funzionalità di tutto quanto esploriamo sul web va affrontato in modo diverso. “Sono molto diffidente verso le concezioni estreme che riguardano l’usabilità –sostiene Manovich - . Penso che il problema sia mal posto. In realtà oggi quando si parla di comunicazione non si fa riferimento al puro accesso ai dati, ma piuttosto a logiche di persuasione, nelle quali gioca un ruolo fondamentale l’emotività: quindi gli aspetti di grafica e di presentazione danno un contributo di primo piano”.
Il computer regista
Secondo Lev Manovich il cinema interattivo probabilmente non esisterà mai. Ma resta interessante cimentarsi con le innumerevoli possibilità compositive consentite dall’intervento del computer sulle immagini video. È uno degli obbiettivi di Soft Cinema, l’ultimo lavoro artistico dello studioso, che si avvale di un vasto database di immagini in movimento e di un software che consente di combinarle in tempo reale. In pratica, a comporre il film nella sua versione definitiva ci pensa il computer: il software decide cosa appare sullo schermo, dove e in quale sequenza, sulla base di un insieme di regole impostate dal sistema. Lo schermo è suddiviso in varie sezioni, sul modello delle interfacce uomo-computer a finestre (come Windows) o delle tv finanziarie. “In una piccola finestra, ad esempio – spiega Manovich – possiamo mostrare i ricordi di un personaggio o le alternative possibili per la narrazione”.
È un modo diverso di raccontare, che vede nello schermo non tanto un punto di vista su un mondo, quanto un supporto per informazioni stratificate, che coesistono nello stesso spazio. Soft Cinema ci dice anche qualcos’altro del suo autore. Al di là dell’intento analitico, che prevale nel libro, Lev Manovich ha un proposito ben più ambizioso: “Usare il computer per rappresentare la nostra soggettività e la nostra esperienza personale del mondo”. Immagini disconnesse, frammentarie, che si combinano secondo un montaggio spaziale che nessun tecnico umano ha pianificato. Il “flusso di coscienza” di una macchina.
https://www.manovich.net
Lev Manovich: la forma nella società dell’informazione
View Article details
- 21 gennaio 2003