La Torre Rasini, il grattacielo Pirelli e il primo Palazzo Montecatini ritratti da Gabriele Basilico negli anni Ottanta
Attraverso la camera oscura
Sul finire degli anni Sessanta frequentavo la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. In quel periodo non c’era grande attenzione per l’architettura sul piano disciplinare: erano gli anni della “contestazione generale” e gli studenti erano prevalentemente impegnati nelle assemblee e nelle manifestazioni di piazza.
Pubblicato in origine su Speciale Domus Gio Ponti / anno 2008
Questo stato delle cose metteva in secondo piano l’interesse per l’architettura come esperienza progettuale. Si preferiva parlarne dal punto di vista dell’habitat e delle condizioni sociali, producendo molte “indagini sul campo” soprattutto nelle periferie urbane. Paradossalmente, terminati gli studi, avendo scelto per il mio futuro la fotografia, sono stato coinvolto in modo più diretto dall’architettura. Ho iniziato prima a lavorare per documentare il lavoro dei progettisti e successivamente con maggior frequenza per l’editoria e per le riviste. Questo mi ha consentito di sperimentare a lungo come l’opera degli architetti si possa interpretare attraverso l’obiettivo e come si possa di nuovo reinterpretarla sulla carta stampata: lavoro quindi non solo di fotografia, ma di composizione grafica, di impaginazione, cioè di immagine. Prima di raggiungere un linguaggio stabile, consolidato, osservavo con grande attenzione quei fotografi che per me erano i maestri, i protagonisti di quegli anni, fortemente presenti sulle pagine delle riviste italiane: Aldo Ballo, soprattutto per gli interni e lo still life, Giorgio Casali per l’architettura contemporanea, Paolo Monti per l’architettura storica e il paesaggio urbano, ma anche Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin, fotografi a tutto campo, capaci di leggere l’architettura con la presenza delle persone. Avevo molta ammirazione anche per i grandi maestri internazionali: Ezra Stoller o Yukio Futagawa, che con Global Architecture – la serie di monografie curatissime di grande formato dedicate a singole opere di architettura – aveva come stereotipato una visione formalista di grande seduzione, impegnata in una iper-estetizzazione delle forme architettoniche. Nel 1980 fui invitato dalla Galleria d’Arte Moderna di Bologna a organizzare, con Italo Zannier e Gaddo Morpurgo, una mostra dal titolo “Fotografia e immagine dell’architettura”. In quell’occasione ho avuto modo di invitare – e quindi di conoscere personalmente – Giorgio Casali attraverso la mediazione di Marianne Lorenz, allora caporedattore di Domus. Giorgio Casali firmava da sempre le sue foto “Casali Domus”. Questo sodalizio di appartenenza tra un collaudato, perspicace fotografo e una delle più note testate internazionali di architettura è durato circa 30 anni, affinando nel tempo uno “stile visivo” che sotto la guida o l’influenza di Gio Ponti, e con l’uso di un progetto grafico molto coerente, era diventato fortemente codificato e inconfondibile. Casali mi aveva confidato di lavorare sempre con ritmo sostenuto, preferendo realizzare un vero e proprio reportage di architettura invece che poche singole riprese. Partiva per ogni servizio con la sua FIAT 1100, avendo come assistente il figlio Oreste, utilizzando – oltre a una camera a banco ottico di grande formato – una reflex 6x6: dal suo negativo quadrato, sacrificando buona parte dell’inquadratura, ricavava spesso immagini rettangolari. Per molto tempo ho immaginato che questa ‘reinquadratura’ successiva allo scatto, ottenuta semplicemente con la lama della taglierina – che dava luogo a stampe fotografiche di formati imprevedibili e sempre diversi, e che conseguentemente necessitava di una gabbia libera per l’impaginazione sulla rivista – fosse una delle costanti dello stile “Casali Domus”: con tutta probabilità, una scelta estetica di Gio Ponti. In altri tempi, tagliare una fotografia, alterando l’inquadratura originale corrispondente alla ripresa, sarebbe stata considerata un’eresia, come un’amputazione inaccettabile e violenta. Invece il risultato finale su Domus non era mai privo di fascino e di originalità: fotografie al vivo, a piena pagina, oppure con tagli stretti e allungati sia in orizzontale che verticale, frequente uso di particolari anche molto ingranditi, immagini dominate da forti chiaroscuri, una regia un po’ teatrale, decisamente orientata a un gusto formalista che amplificava la percezione estetica dell’architettura. Penso che per molto tempo Domus sia stata così un modello di riferimento autorevole, seppur con una declinazione personale tutta italiana, di una sorta di international style fotografico: che ha accompagnato l’evoluzione della fotografia di architettura, e che con l’uso di un colore saturo e di un bianconero ad effetto, a livello della rappresentazione, ha raggiunto l’obiettivo di incrementare il valore aggiunto dell’opera degli architetti. Questo linguaggio, che esalta soprattutto i valori plastici e formali dell’architettura, sacrifica il contesto e dà alle opere architettoniche un senso di astrazione e in qualche caso di atemporalità. Va anche detto che nei primi anni Ottanta nella fotografia di architettura si è sviluppato un altro atteggiamento, che mirava a ottenere immagini più realistiche e meno astratte, descrivendo l’opera immersa nel suo ambiente, senza nascondere o sacrificare il contesto, anzi cercando con insistenza una possibile relazione. Il sodalizio Casali-Domus invece si è praticamente concluso con la morte di Gio Ponti. Si è così esaurito un lungo periodo di fotografia ‘solare’, difficilmente ripetibile, dove uno stesso fotografo per oltre trent’anni, metabolizzando il pensiero e la creatività di un grande architetto, ha dato vita a un racconto denso e coerente sull’avventura dell’architettura italiana e internazionale a partire dal secondo dopoguerra. Dal 1982, con la direzione di Alessandro Mendini, e fino ai giorni nostri, non è più esistito un fotografo che abbia lavorato in esclusiva per Domus. L’alternanza delle direzioni nel tempo ha creato l’occasione di molte collaborazioni con fotografi diversi. Nonostante ciò, nel lungo periodo è importante osservare che in Domus la fotografia ha avuto sempre un ruolo protagonista nelle scelte editoriali e di impaginazione grafica. La lezione di Gio Ponti e del suo fedele compagno di strada Giorgio Casali ha consolidato uno stile e ha costruito un modello forte, inossidabile e cristallino, successivamente aperto a nuove influenze e contaminazioni, comprese quelle della fotografia d’artista. Gabriele Basilico Gabriele Basilico, architetto e fotografo, negli anni Ottanta ha rinnovato l’immagine dell’architettura e dell’ambiente urbano con reportage per riviste e istituzioni. Realizza numerose mostre, come quella al Museum of Modern Art di San Francisco: “Gabriele Basilico: From San Francisco to Silicon Valley”.